Pubblicato in: Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria, n. 38/39, 1999/2000.
“Insieme al racconto del paziente emerge il racconto dell’uomo che scoprendosi attraverso la sua stessa narrazione, si riconosce e ad essa può riportare e assimilare i racconti di tanti altri uomini”.
Il potere della narrazione
La narrazione è una delle forme più antiche di comunicazione. Non si limita a riferire i fatti, ma ciò che è accaduto si cala nella vita del relatore, il quale ne fa dono a chi ascolta e lo offre come esperienza. In questo modo, delle storie raccontate, resta la traccia, la presenza viva, del narratore. Walter Benjamin, al quale s’ispirano le precedenti riflessioni, in Angelus Novus segnala, al fine di identificare ciò che appartiene alla sfera della narrazione, opere di autori che sono in grado di trasmettere esperienza. I vissuti che sono assorbiti dalla memoria e diventano ricordo, nel momento del racconto non hanno più la vitalità originaria. Può accadere però che in qualche momento, come successe per Proust quando il gusto della “madeleine” lo riportò negli “antichi tempi”, si risvegli la memoria “involontaria” che conserva la vividezza della situazione vissuta. È quanto avviene nella poesia di Baudelaire. Nei “Fiori del male” l’esperienza del poeta è viva. Non viene assimilata nel ricordo ed è forte come uno “shock”. L’impatto che investe l’autore viene trasmesso a chi legge. Lo shock traumatico è effetto della rottura della naturale protezione che mettiamo agli stimoli disturbanti e Baudelaire non si protegge. Parigi, le donne, il vino, l’hashish, il dolore profondo della sua esistenza entrano a forza nei versi e con forza passano al lettore.
Lo psicoterapeuta stimola l’esplorazione di quanto si nasconde assopito dietro le difese, protezioni che rendono inerte la memoria. Il dolore connesso al ricordo risvegliato porta con sé l’intera storia, che ora, rinnovata nel racconto, diventa esperienza viva. Il paziente che rincontra gli “shock” originari vibra attraverso le parole che lo ricordano e diventa narratore. Baudelaire descrive il processo della creazione come un duello nel quale l’artista prima di soccombere, grida di spavento. Così “urla” il paziente al quale si disvela il mondo tenuto segreto, ma non soccombe, anzi, ridando vita al suo racconto, cresce in dignità e spessore. La storia si sviluppa ed emerge il personaggio, e questo si ispira alle favole e ai racconti dell’infanzia. J. Masterson analizza Cenerentola e Biancaneve e ritrova il loro modelli di adattamento patologico. Le favole sono i racconti delle nostre angosce e aspirazioni, ma anche del viaggio personale che il bambino compie per realizzare il proprio Sé.
Nel caso dello scrittore Thomas Wolfe il personaggio appare invece attraverso i romanzi che scrive. Masterson riporta stralci della biografia dello scrittore e li usa come esempi per un caso clinico. I brani che cita e i passi che riporta dalla sua opera, sono vivi di esperienza e rispondono alla visione di Benjamin su cosa è narrazione. Ciò che lo scrittore ha vissuto viene tradotto in romanzo e passa dall’artista al lettore in tutta la sua drammaticità. Le ferite e le angosce sono le stesse di chi in quei vissuti si identifica. È la storia di una vita “al limite” che attraverso i personaggi del romanzo riporta le esperienze reali della sua infanzia. I rapporti familiari, l’indissolubile legame con la madre e il terrore dell’abbandono. Il complesso mondo di un’esperienza infantile che lo porterà ad essere per il resto della vita disperato e dipendente, alla perenne ricerca di una madre che trova in donne particolari disposte a prendersene cura. Lo accudiscono organizzandogli la vita e così, libero da angoscia abbandonica, scrive e attraverso l’atto creativo si cura. Apre il suo mondo caotico e il raccontarsi lo placa tenendolo lontano dall’alcol. Rivive nel ricordo fiumi di esperienza che emergendo si riempie di affetti e diventa viva. Stati emozionali, sensazioni, immagini e storie che tornando alla memoria si ordinano e danno pace. Proprio come avviene nel processo terapeutico. Quando si aprono le porte ai vissuti affettivi ed ai ricordi connessi c’è spazio per il sé reale. L’animo dello scrittore, mentre dà ordine al suo romanzo interno, si tranquillizza.
Il racconto come strumento introspettivo
Raccontarsi è il primo strumento introspettivo che usano il ragazzo e la giovanetta quando tengono il diario e allo stesso tempo, appuntando le loro esperienze, costruiscono la propria memoria. Nella tradizione degli Stoici la tecnica dello scrivere fu considerata una metodologia di esplorazione del Sé. Lo scrivere le proprie storie aiuta a focalizzarsi sul mondo interno e produce nessi associativi che facilitano lo sviluppo della consapevolezza. L’impegno autobiografico è uno dei mezzi attraverso i quali l’uomo si conferma che esiste, che è esistito e che vuole sopravvivere. Secondo D. N. Stern questa tendenza è già presente nel bambino di tre anni.
Il Copione, che nella formulazione di Eric Berne è lo schema di vita che si organizza nei primi anni di esistenza, si presenta al terapeuta come un racconto, una storia che con le sue trame impronta una visione del mondo. Quando il paziente arriva a lui propone un personaggio elaborato proprio su quelle matrici. Lo ha costruito durante anni di esperimenti con l’intenzione di offrire quella che pensava fosse la migliore immagine di sé per essere accettato dal gruppo di appartenenza. Non aveva intenzione di ridurre i suoi potenziali né di limitarsi l’esistenza, come poi di fatto, è successo. Aveva bisogno di un proprio spazio e lo ha cercato in quella che ritenne la maniera più conveniente per essere amato, accolto e riconosciuto. Si aspettava, come ogni bambino, di poter vivere nel migliore dei modi possibili. Il personaggio che si è inventato e che ancora oggi sta recitando, è frutto di una serie di valutazioni, tentativi e compromessi. A volte il rischio troppo grande lo ha spinto a cambiare subito la direzione presa, e soffrì per questo, perché gli piaceva quello che incominciava a fare ma glielo proibirono. In altri casi non ebbe l’acutezza di intravedere possibilità diverse, offuscato forse dalla paura o forse soltanto perché la sua mente non era pronta ad aprirsi ad alternative diverse. Non le conosceva. In certe situazioni scegliere una via piuttosto che un’altra è stato frutto di una inclinazione caratteriale già iscritta nella mappa genetica. Non seppe fare altrimenti e in modo passivo l’accolse e la seguì.
Già alla nascita i bambini sono diversi tra loro. Alcuni, ad esempio, si interessano presto al mondo esterno ed altri sono invece più ritirati e queste differenze non dipendono soltanto dal contatto con l’ambiente. Ci sono livelli di esperienza governati da fattori non controllabili che provengono da eredità culturali e storiche, della famiglia o della società in cui si vive. Alejandro Jodorowsky, propone di cercare le radici dei problemi psicologici a partire dall’albero genealogico della famiglia e anche lui si focalizza sugli “shock”, gli impatti forti che attraverso simboli e metafore ancora ipnotizzano la nostra esistenza. Ciascun componente, dagli avi più lontani, ha lasciato una traccia invisibile e tuttavia trasmessa, per la formazione della personalità dell’erede biologico. Anche la semplice ripetizione di un nome che passa da una generazione all’altra, o la morte di un membro della famiglia avvenuta in circostanze drammatiche, influenzeranno chi verrà dopo. È un racconto che si trasmette nell’inconscio del gruppo e impronta le vite di chi a quell’albero genealogico è legato. La narrazione segue l’onda di energie che attraversano la storia e sono tante le vie lungo le quali la tradizione si trasmette. Sia come sia, viene il momento in cui il bambino, centro di una molteplicità di esperienze e di forze che convergono in lui, incomincerà a scrivere consapevolmente il suo Copione, in maniera volontaria, seguendo naturali principi di preferenzialità che convivono con regole e divieti imposti dall’esterno. Lo scontro più severo sarà con il suo limite, il limite dell’essere umano che ha aspirazioni grandi, a volte senza confini e con la realtà delle cose terrene, l’impossibile con il quale fare i conti. Quello che è certo è che non vorrà passare inosservato su questa terra, vorrà sopravvivere e le studierà tutte per riuscirci. È importante lasciare traccia di sé. Nasce con l’intenzione di essere parte dell’universo che lo circonda e vuole vivere altrettanto tempo che l’universo stesso, non meno, sottolinea Alejandro Jodorowsky quando espone la sua visione dell’uomo.
Il bambino nasce e vive per essere immortale. Non si rassegna a lasciar finire nel nulla la propria esistenza. Il vuoto lo sgomenta. Non possiamo tollerare che un giorno non ci saremo più, così come, similmente, che oggi non ci siamo per l’altro. Ricerchiamo con affanno soluzioni di sopravvivenza, in questa vita ed oltre di essa. Le favole rappresentano tutto ciò. Raccontano le aspirazioni e le tragedie umane. Ci evidenziano la possibilità di mondi migliori e ci mettono in contatto con il desiderio di immortalità, come afferma Bettelheim. Alcuni pensano al paradiso ed altri immaginano che vivranno in eterno nel ricordo dei posteri o di continuare ad esistere attraverso i figli che porteranno i loro cromosomi. Altri si convincono di perpetuare la propria esistenza attraverso un altro essere, uomo o animale che sia. E ci sono quelli che hanno prospettive più limitate: “Sarò energia che entra nella luna” come alcune tradizioni propongono o come G. Gurdjeff pronostica per coloro che non avranno compiuto il loro viaggio verso l’“essenza”, la natura pura. Le storie che raccontano i nostri pazienti, tutto questo ce lo dicono.
La narrazione è stato il mezzo attraverso il quale gli uomini hanno trasmesso la loro saggezza. Benjamin ricorda che i narratori prendevano le proprie ispirazioni dall’esperienza contadina o dai viaggi e nel racconto emergeva sempre la persona che narra. Nella nostra società sembra che i narratori, così come vissero un tempo, non abbiano più ruolo. Per Benjamin con l’avvento del romanzo la storia raccontata ha preso il sopravvento su chi racconta. Ritengo tuttavia che la narrazione, pur avendo perso gli spazi e tempi dei suoi modi tradizionali di esprimersi, abbia ancora oggi un suo grosso peso nella trasmissione della conoscenza da parte di Maestri spirituali che utilizzano esempi presi dalla loro esperienza, da incontri con persone non comuni o anche da loro sogni illuminanti per guidare verso la via della saggezza i propri discepoli. D’altro lato le modalità narrative hanno anche assunto nuove forme che, ispirate ad antichi sistemi di lavoro sul Sé, si sono aggiornate dando spazio all’essere comune, al racconto di uomini e donne che non hanno particolare rilievo e tipo o culturale, ma narrano il proprio mondo interno e quello delle loro relazioni, proponendo le loro storie di individui tesi a curare sintomi e sofferenze, ma anche a dar senso alla propria vita.
La storie terapeutiche
Con l’avvento della Psicoanalisi e delle moderne psicoterapie va in primo piano il racconto del paziente ed è ovvio che, insieme adesso, emerga il racconto dell’uomo che scoprendosi attraverso la sua stessa narrazione, si riconosce e ad essa può riportare e assimilare i racconti di tanti altri uomini. Affiorano le esperienze della conoscenza condivisa da intere culture, dai sistemi sociali e da quelli familiari e si scoprono le tracce della saggezza, del buon senso comune, delle cadute e della perdita di riferimenti di quanti nel cammino della vita si smarrirono o ancora non hanno incontrato la strada. Le storie dei semplici hanno contenuti del tutto simili a quelle dei personaggi del mito e degli eroi delle epopee. Il terapeuta non è il narratore ma partecipa e collabora alla narrazione. Non è lui che attraverso il racconto trasmette saggezza. Piuttosto riceve la storia del paziente e da quella storia è capace di estrarre significati. Nel caso del rapporto terapeutico la narrazione è dunque frutto di quello specifico incontro e tanto è più valida come esperienza quante più persone in essa si riconoscono e possono condividerla. In tal modo la narrazione aiuta a crescere. La storia individuale coinvolge il gruppo terapeutico e intorno a chi racconta convergono le energie di coloro che ascoltano i quali, così stimolati, diventeranno a loro volta narratori.
Le storie terapeutiche sono raccontate in modi diversi e spesso all’inizio hanno un elemento comune. Sono prive di trama e drammaticità. L’energia emozionale è disturbata e il più delle volte, nelle prime fasi di incontro, i pazienti, anche quando manifestano sofferenza, non risvegliano empatia. Il loro star male ha un che di falso ed è privo di pathos. Hanno acquisito un’abitudine ripetitiva, una coazione a soffrire, e le componenti manipolative hanno il sopravvento su altre emozioni più naturali, magari allontanate dalla coscienza poiché proibite. I personaggi non hanno spessore e tutto il racconto manca di vitalità perché i fatti, le emozioni e i pensieri significativi sono tenuti nascosti. Le persone hanno paura di mostrarsi, innanzitutto a se stesse. Il paziente diventa più vitale e trasmette esperienza quando incomincia ad elaborare un nuovo racconto di sé, una storia che partendo da quella originaria si va riempiendo di contenuti e di vicende rimaste celate tra i ricordi. La nuova storia assume significato e soprattutto preannuncia e porta ad un finale diverso. Come si fa con un film in bianco e nero che viene restaurato, nel processo terapeutico abbiamo messo colore. Se riempiamo i vuoti, i racconti dei pazienti assumono consistenza, prendono forma di vicende reali e cambiando la visione del mondo lo stesso passato assume nuovi significati. Quando attraverso il simbolismo dell’operare terapeutico rinnoviamo la relazione con le figure importanti dell’infanzia, i ricordi stessi si aggiornano e viene modificata l’immagine del rapporto con loro. La magia terapeutica sta nel fatto che sanando nella visione odierna quello che avvenne nel passato, le identificazioni e le incorporazioni assumono altre qualità e nell’inconscio cambia il vissuto della propria storia.
È molto importante associare i comportamenti ai significati e conoscere le regole interne che organizzano una personalità. Le terapie fenomenologiche hanno attribuito all’esperienza un valore predominante focalizzandosi sul visibile e lo sperimentabile. È stato un grande contributo per spostare l’attenzione dalla posizione interpretativa dell’analista all’osservazione di altre possibili realtà, ma a volte la mera osservazione del fenomeno ha fatto dimenticare la struttura portando a concezioni troppo riduttive. Guardare all’esperienza nel suo manifestarsi ha avuto forte rilievo in diversi ambiti della cultura del secolo appena trascorso.
Il mondo dell’arte, ad esempio, si è spesso disinteressato ai significati e l’artista impulsivo è andato all’atto creativo lasciando un vuoto di contenuti. In questi casi il quadro o la scultura riguardano poco chi lo osserverà. Al centro è l’artista e paradossalmente il suo mondo interno resta anonimo. Una tela squarciata evocherà nell’osservatore solo ciò che lui stesso su quel quadro vorrà proiettare. In certo senso questo è vero sempre e lo è anche nell’incontro con il terapeuta il quale leggerà a suo modo la storia del paziente. Ma non sarà mai così arbitrario. A differenza che nel guardare un quadro, si attiverà uno scambio tra chi si racconta e chi ascolta. Pollock che dipinge facendo scorrere pittura dal pennello su un foglio messo a terra mentre il suo corpo si muove, esterna uno stato di sé, non cerca significato e neanche ne propone. Esprime un’esperienza. I colori e le spirali lasciati sul foglio sembreranno stati emotivi e sensazioni. Qualcuno più ardito tenterà un’interpretazione ma infine non viene comunicata una storia. Al contrario la figura del paziente emerge e cresce dal racconto e nel racconto si arricchisce.La persona che la riporta e colui che l’ascolta vivranno, entrambi, esperienze dense di significati.
Il ruolo del terapeuta
Come analista transazionale è proprio il significato che cerco insieme alle regole che governano la struttura della personalità.
Come gestaltista osservo soprattutto il colore, il movimento, l’espressione, la forma: la maniera come vive quell’individuo.
E non dimentico che ogni essere umano ha tensioni spirituali che si manifestano attraverso aspirazioni che lo spingono oltre la contingenza e la casualità del suo vivere attuale. Nelle prime fasi gran parte del racconto è ancora inconsapevole. Il paziente si esprime ma comprende poco di sé, non solo, gli è difficile osservarsi e non si rende conto delle incongruenze che propone, dei suoi toni di voce, dello sguardo perso e dei messaggi svalutanti o aggressivi che rimanda. Si interrompe nel libero fluire delle sue associazioni e nella costruzione del racconto. La storia è piena di buchi, vuoti di esperienza che permettono al terapeuta di chiarire, spiegare, attribuire significato, sollecitare comprensione e consapevolezza. Terapeuta e paziente individuano stati difensivi, focalizzano carenze e sempre più la storia diventa esperienza viva. Si aggregano emozioni, il corpo si risveglia ed emergono bisogni repressi o sacrificati che ora, divenuti consapevoli, liberano il paziente dal suo stato di narcosi, rendendolo più vivo. Il personaggio portato in terapia è uno stereotipo impacciato, chiuso come in un complesso di comportamenti e di azioni prive di spontaneità perché dettate dall’abitudine. Ha poche idee, sempre quelle, e qualche emozione che si ripete, che sia congruente o meno con il contesto. Piange o sorride senza necessità, perché così ha imparato a fare, e il suo riso o il suo pianto non sono più legati alla gioia o al dolore. Vivono di vita autonoma, sganciati da quanto la persona effettivamente sperimenta, perché hanno come scopo quello di ottenere un effetto e non di esprimere uno stato emotivo naturale.
La sfida del terapeuta è di portare questo pessimo attore ad essere una persona vera, stimolante, che nella relazione con l’altro si proponga contento se è contento, che pianga se prova dolore e consoli o accolga, si arrabbi o rifiuti in maniera congruente con l’esperienza che vive. Andiamo verso questi obiettivi attivando la vitalità repressa e dando permessi laddove ci furono divieti. Anche la storia del terapeuta, attraverso l’incontro con il paziente, rivive e viene modificata. Stimolando nell’altro un nuovo racconto sta parlando anche al suo inconscio e ciò che trasmette diventa un messaggio che ora anche lui ascolta. Se la narrazione appartiene al paziente, è anche vero che le risposte e le reazioni del terapeuta quella narrazione la integrano, perché anch’egli, attraverso i suoi interventi, implicitamente si narra. Il paziente riceve un modello a cui ispirarsi è un insieme di significati da elaborare e maturare nel suo progetto esistenziale.
Spesso in terapia troviamo le tracce delle favole ascoltate da piccoli e sono spunti che arricchiscono il racconto di trama e di significati. La favola che piacque di più, il personaggio che diventa un mito, portano oggi non solo i ricordi e le fantasie che popolarono il mondo dell’infanzia, ma anche un insieme di messaggi nascosti che il bambino assorbì inconsapevolmente e diventarono parte di lui. Oggi quella favola che torna alla memoria riflette la storia del paziente. Porta nelle sue parole la voce di chi la raccontava ed evoca i personaggi e gli intrecci che nel suo inconscio trovarono spazio e riscontri.
L’identificazione con le storie
Quando chiedo a Milia di identificarsi con il protagonista della sua favola preferita sceglie Sirenetta, e così racconta: “Sono una sirena e vivo nel mare con felicità e curiosità ma c’è qualcosa che mi manca. Sono orgogliosa della mia bella coda. Una grande nonna mi guarda da lontano e so che è attenta a me. Vado in superficie, voglio conoscere questo nuovo mondo e mi innamoro di un uomo bellissimo. Lo voglio, devo fare di tutto per conquistarlo. Allora vado dalla nonna che mi dice che per andare nel mondo devo rinunciare alla mia bellissima coda. Potrò avere delle gambe, per passeggiare correre insieme agli uomini e in particolare, per me, insieme a lui. Ma sentirò grandi dolori camminando. E poi c’è un patto che devo rispettare: se non avrò il suo amore diventerò schiuma bianca nel mare, mi perderò nel tutto e non sarò mai più immortale. Insieme alla coda perderò la mia voce melodiosa e alle domande di lui non potrò rispondere. E poi succede che lui non mi ama e mi dovrò sciogliere in schiuma. Se non ho un uomo sarò però dovunque e dappertutto nel mare, anche se non sarò più immortale”.
Questo racconto è la base dei suoi ricordi e delle sue identificazioni. La favola ha anche altri contenuti più complessi e più difficili da gestire che Milia ricorderà in fasi successive della terapia. Anche il suo Copione li contiene e su quello lavoriamo. La storia della paziente viene fuori gradualmente. Il racconto è vago all’inizio, con molti lati oscuri. Seduta dopo seduta riempiamo i vuoti e diamo senso. Colleghiamo emozioni a pensieri, ricordi a situazioni attuali. Scene che emergono dal nulla diventano riflesso della vita di ogni giorno. Anche i sogni contribuiscono ed offrono una visione in forma creativa e simbolica di una realtà esistenziale. Dando spazio alle diverse esperienze il personaggio prende forma, entra in un contesto e la sua vita acquista spessore. Nel modello gestaltico la terapia diventa esperienza e l’esperienza trasmette vitalità. Quando riviviamo i nostri ricordi li riempiamo degli shock ricevuti ma anche della pienezza degli entusiasmi. In quei momenti il paziente smette di raccontarsi e la sua diventa narrazione. Apprende, e chi lo ascolta partecipa e apprende con lui. La memoria volontaria dà spazio a quella involontaria e si trasforma in esperienza.
Il Copione, che ancora oggi si ripete, è un dramma complesso. Ha un suo inizio, uno sviluppo e una prospettiva finale. Contiene desideri e frustrazioni, sogni, aspirazioni, illusioni, colpi di scena e tanti imprevisti che a volte danno sapore all’esistenza e a volte la rendono difficile. È una storia che somiglia ad un viaggio iniziatico e ripete le trame delle grandi epopee. Il finale prospettato nel Copione può essere cambiato e a volte, superando ostacoli e impedimenti, è la persona stessa che lo fa. Altre volte è la sorte benefica che crea nuove circostanze favorevoli per chi ne coglie l’opportunità. Con la terapia vogliamo cambiare i finali attraverso decisioni responsabili, utilizzando i potenziali e le capacità del paziente. In questo caso il racconto si avvale di un coautore, il terapeuta. È un personaggio che non entra ufficialmente nel dramma eppure lo influenza. Ricorda l’entità benefica e saggia delle favole, che incarna le proiezioni positive del paziente e suggerisce, guida, indirizza. A volte può sembrare troppo esigente. Chiede responsabilità, sfida a correre rischi, toglie sedie troppo scomode da sotto a personaggi immobili che sembrano non voler crescere. Lui resta fuori dalla recita. In quella storia la sua vita non entra. Perlomeno ufficialmente.
I punti di contatto tra la storia e il vissuto del paziente
La scelta di Sirenetta è coerente con il Copione di Milia che ha un carattere improntato alla sofferenza. Tende a cercare fuori da sé, convinta com’è che gli altri abbiano di più e che il mondo sia pieno di cose, ma non per lei. Insegue un amore che non trova e lo vive nei sogni mentre giorno dopo giorno si strugge perché in concreto non lo riceve. L’uomo che vive accanto, suo marito, è da tempo un buon compagno di strada che anche un po’ la protegge, un fratello maggiore che se ne prende cura, ma non la sceglie come donna e il loro è un matrimonio casto, senza desiderio nè prole. Sirenetta si innamorò del principe, per lui rinunciò alla bella coda e alla sua voce melodiosa ma infine non conservò la condizione umana e l’immortalità che le erano state promesse in cambio del suo sacrificio. Il principe non si innamorò di lei. Le volle molto bene. La portò nel suo palazzo e le stette accanto. La trattò come una sorellina e sposò un’altra, la principessa sconosciuta alla quale pensava di dovere la vita dal giorno in cui, a seguito di un naufragio, era stato salvato. Aveva sempre creduto che la principessa fosse la salvatrice ma, in effetti, era stata la piccola sirena a portarlo fino a riva e quando avrebbe potuto rivelarglielo, ormai non poteva più parlare. Per il fatto che il principe non si innamorò di lei Sirenetta dovette pagare il prezzo stabilito dalla strega alla quale aveva chiesto aiuto. Finire come schiuma del mare e perdere l’immortalità che avrebbe ottenuto soltanto se avesse conquistato l’amore del principe.
È l’amore che rende immortali. Milia come Sirenetta non è amata e nella disperazione la sua vita si spegne. Ha una convinzione profonda, che viene dall’infanzia: “Non ho diritto a ricevere amore da un uomo”.
Su questa base programma la sua vita ed effettivamente l’amore non viene. Vive rifiuto, si convince di non essere degna e per questo, piena di vergogna e di rabbia, si sente morire. Per dar senso al suo racconto dovrà intendere che lei stessa sta evitando di essere amata. Si è scelta un uomo che come donna proprio non la vede. Cosi perpetua l’imperativo a “non crescere” e si illude di proteggersi da più spaventose fantasie d’abbandono. Lo speciale rapporto con il padre, che fu pieno e coinvolgente, venne bruscamente interrotto quando era ancora bambina, e per lei fu una perdita irreparabile. Intuì che alla madre dispiaceva il contatto vivo e “carnale” che viveva con il padre, non capiva perché, e con sacrificio rinunciò, senza rendersi conto di quanto perdeva. Oggi in terapia riapre storie interrotte e con dolore riscopre bisogni di guida e riferimenti che le mancarono. Diventa consapevole che dietro il rifiuto dell’adolescente nei confronti del padre irascibile e distante, che in seguito improntò il suo modo di esser donna, c’è ancora il peso di quel distacco forzato.
Compensò la perdita con un sogno e si ispirò a una favola: un giorno ci sarebbe stato un principe per lei. Ma scelse tra le favole proprio Sirenetta la cui storia è piena di sacrificio non ripagato perché il principe, pur avendolo incontrato, non fu mai suo. Sirenetta restò senza madre, morta alla sua nascita e venne affidata alla nonna che, per quanto l’accudisse e fosse prodiga di insegnamenti, non poteva riempire il vuoto di calore e nutrimento lasciato dalla mamma. Del padre si sa che c’è, è un padre che governa i mondi marini, ma partecipa poco alla vita della sua ultima figlia. Il re senza la regina governa territori e sudditi ma non fa famiglia. La piccola sirena si annoia nel suo regno anche se è pieno di cose belle. Vuole crescere in fretta, invidia le sorella che, più grandi di lei, si possono già allontanare e conoscere nuovi luoghi. Nel suo palazzo è sicura e protetta ma vuole una vita significativa ed è attratta dal mondo degli umani.
Anche Milia si riempie la vita di aspirazioni. Per un lungo periodo il suo racconto in terapia è sterile, sempre uguale. Piange e rivendica, si sente incompresa. “Non ho niente”, dice, ed è convinta che il mondo non le voglia dar niente. Come Sirenetta anche lei metaforicamente ha perso presto la madre che la “espulse” a sette mesi “liberandosi” di lei. Cosi racconta la sua nascita. È stata a lungo disperata e soltanto da poco incomincia a farsi spazio in campo lavorativo mettendo a frutto egregiamente le sue capacità creative. Pur avendo ancora vergogna per i suoi limiti, convinta com’è di essere “diversa”, non si ferma e lotta per la sua crescita, tesa a raggiungere ciò che vuole per avere uno spazio significativo nel mondo. Anche Sirenetta desidera uscire dalle ristrettezze della sua condizione e cerca un altro stato che le dia più valore. Affronta un difficile viaggio pieno di rischi e pericoli, attraverso gli abissi marini, per incontrare la strega invidiosa e piena di potere che le offrirà la formula per realizzare le sue aspirazioni ma che segnerà anche la sua condanna. È un vero viaggio iniziatico quello che affronta e lo fa con coraggio, giocandosi la vita.
L’interpretazione del racconto
Milia ha un’inclinazione del tutto simile. È da anni coinvolta nel suo processo di crescita e non molla. Il percorso è molto articolato e, oltre al proprio lavoro terapeutico, segue insegnamenti provenienti da tradizioni spirituali, paralleli e integrati alla psicoterapia. Oggi la sua vita è cambiata per molti aspetti ma resta ancora irrisolto il nodo dell’amore, che per lei si riassume nel bisogno dell’amore di un uomo. Un uomo ce l’ha, ma non è quello che vuole. Se lo è scelto poco disponibile a desideri appassionati, freddo nel contatto, incapace di slanci, ma in compenso affidabile e rassicurante, fraterno e protettivo. Pur avendolo negato per anni, oggi sa che questo è il tipo di partner coerente con l’organizzazione del suo Copione. Tuttavia continua a dire a se stessa che ha “bisogno di pensare ad una storia straordinaria”, non può rinunciare alle sue fantasie, cadrebbe le vuoto più totale. D’altro lato l’intreccio copionale è complicato dalla paura di ripetere l’esperienza della madre. “Dare attenzione ad un uomo è come annullarsi” le diceva. Si è costruita quindi un’idea sugli uomini che è il risultato di una visione generalizzata dell’esperienza che verificava nel rapporto tra i genitori. Questa convinzione, incisa nella mente, le segna la vita. Si ribella ai modelli appresi nell’infanzia e le sue decisioni esistenziali sono rivolte a cancellare la possibilità di poterli replicare. Si è scelta un uomo imbelle, polare al tirannico papà. Alle urla e alle imposizioni ha sostituito il silenzio e nel silenzio non succede nulla. D’altro lato, pur se messa sullo sfondo, Milia conserva anche un’altra immagine d’uomo che deriva dallo speciale rapporto che per un certo tempo ebbe con un padre vissuto come “principe”. Lo stesso principe al quale è legata nelle sue fantasie. Le trame di vita dei pazienti hanno delle loro logiche complesse e articolate. Via via che si sviluppa il racconto, la storia assume fascino ed è una mostra di creatività e intelligenza. Il clinico mette a nudo la struttura delle trame e guarda alle convinzioni e alle decisioni che le guidano.
Nuclei cognitivi, idee e pensieri elaborati da una mente bambina e decisioni consequenziali che hanno lo scopo di procurare i maggiori vantaggi con il minor rischio possibile ed hanno come obiettivi congiunti la conservazione e l’evoluzione. Emozioni che si collegano a pensieri e viceversa, gli uni che alimentano gli altri e spesso in maniera nascosta. Milia piange ma in realtà non è quello che vuol fare, è arrabbiata. Pretende un uomo che la ami e accusa duramente il suo compagno di essere passivo, di non fare niente per incontrarla. Poi si rende conto che è lei che scappa, è lei che ha paura dell’incontro. Raccogliendo i ricordi scopre che la bambina non regge l’attenzione di papà su di lei, perché mamma ne soffrirebbe troppo. Li vuole entrambi ma loro, come due bambini, si combattono per l’esclusiva. Milia, a pochi anni di età, si sente costretta a operare una scelta, a stare con l’uno o con l’altro e, apparentemente sceglie la madre. Di fatto, continuerà a battersi nel conflitto.
L’evoluzione del vissuto
Oggi le uniche storie di sesso le vive sporadicamente fuori dalla coppia. Sono forti e coinvolgenti, ma finiscono lì. Continuando nella sua esplorazione Milia acquisisce nuovi elementi. La narrazione è piena di sorprese. “Quando ho intimità o sesso dopo mi resta un vuoto che rimbomba e questa sensazione mi fa sentire che mentre facevo l’amore qualcosa mi è stata presa, come se rimasse solo la pelle, la forma e dentro non c’è più niente, questo vuoto che sento non lo posso riempire subito, lo stato di intimità non è perenne e quando si interrompe mi sento vuota e quindi insoddisfatta”. Questo vuoto è esistenziale e si nasconde dietro ogni sua esperienza. È più che un vuoto d’amore, è una carenza ontologica. E allora cerca. Cerca incessantemente come riempirsi, dove riempirsi. La sua vita è un continuo movimento tra esperienze e cose da fare tra le quali si perde illudendosi che sta cercando “il meglio”. Non vale la pena stare solo da una parte. “Come se mi escludessi da altre possibilità devo faticare per avere il meglio”. La convinzione è diventata anche una decisione operativa che le governa la vita e si autoalimenta, grazie ad una confusione cognitiva basata sull’idea che se le cose per lei non sono disponibili allora dovrà sforzarsi molto di più, e così un giorno da qualche parte le troverà. È l’illusione che coltiva Sirenetta la quale paga prezzi enormi per incontrare il Principe ed essere amata.
Milia non si sentiva vista, “Non avevo attenzione, ero una bambina invisibile”. Ebbe vergogna per il suo stato e ne ebbe grande dolore. Una bambina che si sente invisibile soffre per la sua vanità frustrata ma soprattutto vive un senso profondo di non esistere per l’altro. Reagì facendo una promessa a se stessa senza crederci davvero. “Diventando grande mi riscatterò” e si illuse che cercando e cercando al fine si sarebbe riempita. “Un giorno” si disse, ma quel giorno è sempre lontano o meglio, non arriva mai e Milia alimenta un’altra convinzione: non è lei che sta cercando l’impossibile, è una questione di fortuna. “Ci vuole fortuna, è un’eredità di famiglia, noi non siamo fortunati, noi le cose ce le dobbiamo faticare, magari arriviamo allo stesso risultato ma con fatica” e aumenta la frustrazione. Risulta chiaro che le sue aspirazioni illusorie hanno lo scopo di compensare la forte svalutazione che fa di sé. Il primo “no” lo ricevette alla nascita, come lei racconta a seguito di un’esperienza regressiva. Nacque prematura e nessuno la accolse. Mancò il primo contatto caldo, e miserella e piccolina fu esposta al mondo. Anche questa esperienza di Milia richiama la storia di Sirenetta la cui mamma muore alla sua nascita. Questo evento che socialmente appare una terribile disgrazia, per un bambino è un implicito rifiuto. Milia per lungo tempo è scappata dal contatto, soprattutto se fisico. Alla separazione traumatica dalla madre si era aggiunta quella dal padre. Ma in terapia la storia si aggiorna e dopo anni di sfiducia e di rifiuto di tentare, oggi può raccontare, a seguito di una seduta di rinascita, di essere stata finalmente accolta da una “nuova madre” che l’aspettava, di essersi abbandonata sul suo grembo e di essere stata lì per lungo tempo, calda e commossa.
Contenta di “essermi ripresa qualcosa”. In altri momenti aveva detto: “Ho bisogno di un congiungimento, voglio appartenere… poter stare, provare una sensazione di stare”. Lotta tra un desiderio di fusione e la voglia di scappare. Alla bambina lamentosa, distante ed evitata degli inizi della terapia è subentrata oggi una piccola donna vezzosa, esagerata forse in moine, che elargisce grazia e piccole facezie. Il nuovo personaggio che offre al mondo è sicuramente più accettato e, sia nel lavoro sia nella relazioni sociali, riscuote successo. Magari esagera nella sua attitudine adolescenziale, ancora non trova l’equilibrio, ma sta cercando la sua strada e a volte è necessario un certo tempo per ripercorrere le tappe non vissute. Spesso ci si ferma a lungo a sperimentare il nuovo perchè si ottengono vantaggi mai avuti prima ed è quindi difficile fare il passo successivo.
Anche se in un modo che non è quello a cui aspira, Milia sta ricevendo molto amore e molto riconoscimento e la sua fame si placa. Aspetta ancora il Principe e in attesa di lui si affianca al compagno di sempre, impaurito quanto lei di vivere una storia emotivamente e sessualmente coinvolgente. Le cose cambieranno? Quello che è certo è che non demorde. Cerca ancora disperatamente l’amore e lo vuole dal compagno complice che la segue nei suoi capricci in una storia che dura ormai da vent’anni. Ancora attribuisce a lui la responsabilità, è lui che non la vuole, che la rifiuta, che è incapace di tenersi una donna. “Non si sveglia, dorme”. Ora però sa che in modo diverso anche lei sta vivendo il suo sonno e quanta paura abbia di entrare fino in fondo in una relazione. Un giorno forse il racconto avrà riempito altri vuoti e narrerà nuove vicende.
Conclusione della storia
Sirenetta si salva dal finire come schiuma del mare e non si perde nell’infinità dell’oceano. Le sorelle intercedono per lei e ottengono che venga cambiata la sua condanna, ma dovrà conficcare un coltello nel cuore del principe. Non porta a termine l’azione, non ha il coraggio di uccidere l’uomo tanto amato e la sua generosità viene premiata. Sirenetta vola in alto e viene accolta tra le figlie dell’aria. Lì, nello spazio del cielo, per trecento anni vivrà in uno stato di sospensione e si impegnerà per il bene degli uomini. Alla fine non morrà, sarà immortale. Attraverso il suo viaggio iniziatico, per quanto duro sia stato, al fine si salverà. La crescita continua. L’adolescente ancora non ha raggiunto la maturità adulta che la porterà alla pienezza del suo essere, e ci vorrà del tempo. Anche Milia, nonostante l’età anagrafica, vive uno stato adolescenziale. Quello che oggi propone di sé è il racconto di una giovane donna che si affaccia alla vita e lo fa partecipando con allegra curiosità. Commentando la storia di Sirenetta ha concluso: “Pago molto, rinuncio alla coda e non riesco ad avere l’amore, anche se mi annullo, rinuncio, non trovo”. Questo stato è vissuto come ineluttabile. È un divieto profondo che le condiziona la vita e a partire dalle sue esperienze lei stessa se lo è dato. Intorno al divieto ha costruito una trama fitta di eventi. Molti sono stati elaborati e riportati ad una coerenza narrativa.
Il racconto interno si articola intorno a idee guida e ogni esperienza che viviamo viene assimilata per coerenza al progetto esistenziale già formulato. Per integrare il racconto e arricchirlo è necessario dare spazio al diverso e all’incoerente, uscire dalla trama per poi riappropriarsene, rinnovata e diretta da nuove regole. Se Milia aspira al principe dovrà imparare a cercarlo anche laddove non ci sono castelli. Senza perdere i suoi sogni e le sue aspirazioni, li potrà realizzare nella concretezza della vita piuttosto che immaginarli senza mai conseguire risultati. Le fantasie che restano tali perché impossibili, sono frutto di angoscia di vivere.
E i sogni quanto più grandi appaiono più paura nascondono e più delusioni e fallimenti preparano.