La Psicoterapia della Gestalt in Italia: lo stato dell’arte

da Antonio Ferrara
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“Quattro tra i più importanti capi-scuola della Gestalt italiana dialogano e si confrontano sul loro stile di lavoro, sugli aspetti teorici che considerano fondamentali e su quelli che necessitano di sviluppo, su ciò che li accomuna e su ciò che li divide”.

 

È per me un grande privilegio assumere la responsabilità giornalistica dei Quaderni di Gestalt, rivista storica nel panorama editoriale italiano dedicato alle scienze umane. Quando fu fondata, trent’anni fa, da Margherita Spagnuolo Lobb e da Giovanni Salonia, ben pochi conoscevano il nostro modello terapeutico. L’età dell’oro della Gestalt era ancora di là da venire, e fu proprio anche grazie ai Quaderni che questo movimento culturale poté diffondersi e mettere radici in Italia e in Europa. Onore e privilegio quindi, poter essere qui ad aprire il nuovo corso della testata oggi edita da Franco Angeli, ora più che mai chiamata a svolgere un ruolo importante che faciliti il confronto e il collegamento fra le scuole terapeutiche italiane a orientamento gestaltico.

Riveste un particolare significato, per me, avere curato questo articolo di apertura, corale e composito, espressione del pensiero di quattro tra i maggiori capi-scuola della Gestalt nel nostro Paese. Si tratta di un dialogo virtuale: stimolati dalle domande del dottor Dan Bloom e della professoressa Angela Maria Di Vita, superando le distanze geografiche e temporali che li separano, i quattro Direttori danno vita a un interessante dibattito su alcuni punti-cardine del nostro approccio.

L’intento è quello di tastare il polso alla Gestalt italiana per verificare se (come accaduto negli USA del dopo-Perls) si sia attuata anche da noi una diversificazione nel modo di vivere e di applicare il modello originario. Una occasione per cogliere anche la direzionalità evolutiva del pensiero gestaltico: a partire dagli anni di Esalen, malgrado la rilettura europea di Gestalt Therapy in chiave ermeneutica, il nostro approccio è stato spesso tacciato di deriva New Age e di scarso peso scientifico. Proprio per questo, l’approfondimento della teoria del sé, e l’elaborazione di una teoria evolutiva che da tempo allinea il nostro modello con i più moderni sistemi concettuali di psicologia dello sviluppo (vedi la collaborazione con il professor Daniel Stern – cfr. Quaderni di Gestalt n. 30/31 – gli studi sulla creatività – cfr. Spagnuolo Lobb, 2003 – e l’anticipazione di inconscio intersoggettivo già in nuce nel concetto di figura/sfondo), ha una grande importanza per l’evoluzione della psicoterapia della Gestalt. Mi sembra giusto, quindi, chiederci oggi: dove ci troviamo? Verso dove andiamo? Cosa ci unisce, e cosa ci rende unici? Un caloroso ringraziamento a tutti per avere accettato il rischio di rispondere con sincerità a questi interrogativi.

 

Dan Bloom

Oggi viviamo in un mondo molto diverso da quello in cui e nata la psicoterapia della Gestalt. Come sappiamo, in questo approccio il sé è concepito come adattamento creativo al campo sociale in evoluzione. Ne consegue che l’evoluzione e la crescita sono per noi “pane quotidiano”, in quanto connaturate con la teoria e la pratica del nostro metodo. La prima cosa che vorrei chiedere a ciascuno di voi è: in quali aspetti della tua pratica della psicoterapia della Gestalt hai notato personalmente e direttamente l’evoluzione o la crescita del nostro approccio?

 

Mariano Pizzimenti

Potrei rispondere: in tutti gli aspetti, ma la difficoltà è distinguere tra i cambiamenti dovuti al mio invecchiamento e quelli conseguenti a un’evoluzione dell’approccio. È molto cambiato il mio modo di “stare” nei gruppi. Anni fa ero più direttivo; oggi sostengo maggiormente il caos e lascio prevalentemente al gruppo la responsabilità di scegliere e di fare emergere una figura. In effetti posso dire che oggi faccio solo “terapia di gruppo”, perché anche quando incontro una persona da sola, lavoro col gruppo che formiamo noi due insieme. Ecco, questo è l’aspetto che maggiormente è cambiato: non faccio più terapia individuale.

 

Margherita Spagnuolo Lobb

Ecco, mi aggancio a quanto dice Mariano. In effetti, quando ho conosciuto la psicoterapia della Gestalt negli anni ‘70, era diffusa fondamentalmente come un approccio individuale in gruppo. Allora, nel fervore delle psicoterapie umanistiche, che miravano ad affermare la dignità di ogni esperienza umana al di là di modelli diagnostici, questo metodo focalizzava la terapeuticità del condividere in gruppo un’esigenza diffusa: quella di emergere, ciascuno con la propria creatività individuale, dall’imposizione normativa di varie forme di autorità, più o meno istituzionalizzate, tenendo fede al principio dell’autoregolazione dell’organismo. Oggi l’aspetto che mi sembra più evidentemente cambiato ha a che fare con l’uso delle emozioni e del “potere” del terapeuta nel setting (cfr. Cavaleri, 2009). Opponendosi alla dicotomia tra autorità e dipendenza, che secondo la cultura del tempo ostacolava l’emergere dell’individualità creativa, i fondatori cercarono di costruire una teoria del sé che rispecchiasse la spontaneità delle relazioni umane, che cogliesse quel quid che caratterizza la vitalità dell’esperienza umana (Spagnuolo Lobb, 2001). Ciò che cura non è la comprensione razionale e quindi il controllo del disturbo, bensì qualcosa che ha a che fare con aspetti processuali ed estetici del qui-e-ora della relazione terapeutica.

L’uso delle emozioni nella pratica clinica gestaltica rientrava in questo sforzo di riconquistare la spontaneità nel qui-e-ora dell’incontro terapeutico. Ma la fiducia che ogni emozione vissuta nel setting terapeutico sia di per sé terapeutica, con l’andare del tempo, man mano che la società andava sviluppando necessità diverse da quelle sopra citate, diventò ingenua: qualsiasi condivisione dei vissuti da parte del terapeuta veniva implicitamente vista come positiva e non considerava il fatto che l’emozione provata dal terapeuta consapevole è una risposta sensibile e specifica al campo situazionale.

Oggi la percezione (e quindi anche l’emozione) del paziente o del terapeuta, sia che ci si trovi in un setting individuale o di gruppo o familiare o di coppia, viene vista come un processo che accade non “dentro” l’individuo, ma nello spazio co-creato del “tra”, in cui le intenzionalità di contatto di entrambi si attualizzano. Oggi sappiamo come l’emozione del terapeuta, così come quella del paziente, è un’energia che emerge nella situazione terapeutica, ed è dunque legata alla situazione attuale, in quanto possiede un’intenzionalità di contatto verso l’altro. Per esempio, nel caso in cui il terapeuta provi attrazione fisica (o noia, o fastidio) verso un paziente, il chiedersi: “Come questa mia emozione determina il contatto con questo paziente?”, “Come il paziente contribuisce al mantenimento di questo mio sentimento?”, garantisce da una eventuale condivisione meno ingenua dell’emozione (Spagnuolo Lobb, 2003; 2009).

Il passaggio dall’ottica intrapsichica all’ottica del contatto ha imposto anche uno studio del concetto di campo. Il campo a cui ci riferiamo come psicoterapeuti della Gestalt è un campo fenomenologico che, come ha ben definito Robine (2006), va inteso come situazione “data”, e non come “sistema” (Spagnuolo Lobb, 2008).

 

Antonio Ferrara

Per certi aspetti sono d’accordo con Margherita. La terapia della Gestalt ha dato molto rilievo alle emozioni, e questo fu un grande contributo per la psicoterapia, ancora tanto condizionata dalla razionalità psicoanalitica. Ma poi sulle emozioni ci si focalizzò troppo. Si parlò di terapia del contatto emotivo. È chiaro che la Gestalt non è solo questo. Le emozioni guidano a riconoscere i bisogni, creano la spinta per l’azione, danno anima alle persone.

Il contatto con gli stati emotivi facilita spontaneità e trasparenza, apre ad aree represse e sconosciute della personalità e favorisce relazioni più vere e profonde. Tuttavia non è sufficiente sentire ed esprimere. Non bisogna svalutare gli aspetti cognitivi connessi agli stati emozionali. La Gestalt non ha elaborato un  proprio modo di operare in questa area. Emozione e pensiero vanno insieme. Il pensiero sostiene l’emozione e viceversa. Sono importanti le logiche che organizzano i modi di vivere del paziente, gli danno identità. Nelle prime fasi evolutive, da pochi mesi fino ai due tre anni, quando sono attivi meccanismi di grandiosità e pensiero generalizzante, si formano nuclei ideativi, idee “pazze”, che creano gli schemi portanti della personalità. Le emozioni naturali ne sono condizionate e si trasformano in altre che non sono coerenti con la realtà che si vive. Le costruzioni del passato, anche se con linguaggi aggiornati, si riflettono nel presente.

La concezione del qui-e-ora, prevede il vivere nella processualità, in un continuo di consapevolezza, e stimola lo sperimentare emozioni, vissuti corporei e pensieri, congruenti con quanto avviene proprio ora, e con i sensi “svegli”. Ma bisogna considerare anche le strutture, i Copioni di vita, come, insistendo, voleva Perls in Doni dal lago Cowichan (Perls, Baumgardner, 1983). È necessario trattare le forme irrigidite, cristallizzate, che danno vita a comportamenti che continuano a ripetersi in maniera automatica. Questi aspetti sono stati poco o niente trattati in Gestalt. E non c’entra la processualità. È chiaro che il passato non c’è più, ma le strutture, nella mente limitata, esistono ancora, come realtà attuali. Fare Gestalt per me vuol dire trattare la complessità e le sue molteplici connessioni. Se guardo il diamante vedo la forma che si manifesta. Ma la forma c’è finché permane una struttura che la sostiene. Se voglio tagliare il diamante, devo intervenire sulla geometria che lo costituisce, sull’invisibile, altrimenti non riesco. Vivere nel mondo comporta adattarsi e le forme, il come si fa, hanno anche contenuto. Stare nella processualità è una meta, un ideale, in parte ci si può andare, ma bisogna fare i conti con le interruzioni, che la realtà concreta propone, giorno per giorno.

La filosofia processuale non esclude l’attenzione ai contenuti, si occupa di come trattarli. La realtà si manifesta in forme rigide, stratificate, per l’uomo i Caratteri. Ritengo che sia necessario guardare all’insieme, in cui processo e contenuto vanno spalla a spalla, fino ad arrivare allo stato meditativo, un’effettiva esperienza processuale, come insegnano la Quarta via e il Buddhismo tibetano, che danno attenzione alla mente condizionata e a quella sottile, allo stesso tempo.

 

Riccardo Zerbetto

Claudio Naranjo, assieme a Barrie Simmons e a Isha Bloomberg, è stato uno dei miei grandi maestri. Tutti appartenenti alla tradizione della West Coast. Venendo da una formazione di orientamento analitico (oltre che sistemico e fenomenologico) sono stato rapito dal forte impatto dello stile gestaltico nell’evocare dei vissuti: un impatto diretto, a tutto spessore, e che risentiva della trasmissione “orale”, del contagio con Fritz Perls nel periodo della sua maturità umana, professionale e, direi pure artistica; perché di vera arte si tratta quando il processo morfogenetico si configura come un erlebnis che sa evocare una intima ah!- ah! experience.

In questa prima fase della mia formazione e pratica della Gestalt, è come se la componente esperienziale fosse svincolata da presupposti di carattere teorico. Claudio Naranjo, del resto, si riferisce ad una “teoria della tecnica” parlando di epistemologia della Gestalt; secondo lui, infatti, l’esigenza di un forte radicamento concettuale obbedisce solo a motivi di immagine. Scoprire nella teoria del sé e nelle funzioni di contatto l’essenza dell’impianto teorico della Gestalt ha rappresentato per me un’esperienza di autentica rivelazione. Un approfondimento dei fondamenti epistemologici della Gestalt rappresenta per me un’inesauribile fonte di scoperta; una scoperta a cui ritengo di aver dato un modesto contributo grazie  all’accostamento con il concetto di Io-pelle di Didier Anzieau nella forma della “membrana-sé” (Zerbetto, 1991, 131).

Il genio di Perls, d’altra parte, aveva già saputo intuire le componenti di una costruzione intellettuale dotata di mirabile coerenza interna, le cui potenzialità sono ancora tutte da esplorare e che trovano crescenti conferme non solo nell’ambito delle neuroscienze, ma anche in quello della cultura artistica e umanistica. Perls stesso, nel suo In and Out the Garbage Pail, si diceva stupito dell’attualità dei concetti già esposti in Gestalt Therapy e commentava come solo l’esperienza diretta ci permetta di coglierne la “trama” teoretica, come solo l’acquisizione intellettuale ci permetta di comprendere quello che osserviamo nel lavoro clinico. Non posso che concordare pienamente.

 

Dan Bloom

Hai notato un cambiamento nel tipo di patologia, nella sofferenza che i pazienti portano in terapia?

Pensi che il tuo metodo con loro sia cambiato? In che modo?

 

Margherita Spagnuolo Lobb

Si, certamente: la sofferenza e la sintomatologia portate dai pazienti in terapia sono molto cambiate negli ultimi decenni. Oggi è da tutti riconosciuto come i disturbi d’ansia (attacchi di panico, DPTS, ecc.) e le dipendenze – tra cui spesso si inseriscono ormai le nuove forme di disturbi alimentari – siano oggi i problemi di elezione. Pensando ai principi fondamentali su cui si basa il metodo gestaltico, mi viene da pensare che, nella condizione culturale contemporanea, ci troviamo scioccati davanti all’aggressività. Dopo la fiducia nella ribellione che ha animato gli anni ’60 – ’70, e dopo la fiducia nella realizzazione personale che ha animato gli anni ’80 – ‘90, oggi – nella attuale esperienza di “liquidità sociale” – le relazioni umane hanno perso la vivacità del contrasto diretto: l’aggressività propria crea ansia, quella altrui crea shock.

È stato detto da più parti che oggi l’incertezza regna sovrana: le persone e soprattutto i giovani convivono tutti i giorni con il senso di precarietà che pervade i vari aspetti della vita. La cultura della globalizzazione, poi, ha reso il mondo senza confini, un contenitore attraversabile da tutti, in cui nessuno è al riparo da nulla. Vivere nell’incertezza è la sfida che trasversalmente tocca le persone e i ruoli della società post-moderna.

Oggi il mondo della psicoterapia si interroga su nuovi modi di curare il disagio psichico, modi che – al di là di codificazioni prestabilite – devono adeguarsi al sentire sociale incerto. Anche il dialogo terapeutico deve oggi viaggiare su codici processuali, sulla musica che il terapeuta e il paziente creano, su come riescono a concordare i loro linguaggi, più che sulla comprensione dell’inconscio. Ciò che la psicoterapia della Gestalt aveva intuito negli anni ‘50 viene sempre di più confermato: piuttosto che una cura concepita come analisi dei vissuti del paziente da parte di un analista neutrale, è meglio pensare alla cura come sviluppo di un contatto, ossia come un “giocare” – da parte del paziente la propria sofferenza in una relazione “reale”. A questo punto, non essendo più schermati dalla neutralità, fare la cosa giusta al momento giusto diventa a sfida per gli psicoterapeuti (cfr. Stern, 2004): cogliere il momento chiave che consente di innestare nell’esperienza del paziente un germoglio relazionale sano, aderente alla realtà di ciò che si sente, è il nuovo must di tutta la psicoterapia.

 

Antonio Ferrara

La sofferenza prende forme sempre più articolate e complesse, e allo stesso tempo meno definibili. Spesso i pazienti appaiono inafferrabili, senza confini, volubili e paradossalmente fermi. Parlo dei più giovani. Mi intriga e mi turba questo nuovo mondo. Colgo una sfida nelle nuove generazioni, come se dicessero: “Prendimi, se sei capace”. Quasi pretendono uno sforzo per farsi conoscere e capire. Questo attiva la mia curiosità. Mi interessa conoscere la persona, al di là della patologia o del tipo caratteriale. Cerco un incontro “grezzo”, così com’è, senza preconcetti.

Oggi sono più accettante e meno confrontativo di un tempo. Cerco spazi creativi e mi diverto, giocando con le parole, con gli atteggiamenti, provoco, e invento modalità di lavoro. Ho elaborato un modello, il Teatro Trasformatore, nel quale c’è molta creatività e spazio per l’imprevisto. Quando un “attore”, attraverso il personaggio, e grazie alla finzione teatrale, si permette di essere autentico e rivela a sé stesso e agli altri qualcosa di proprio, una sua verità, e facendolo se ne rende conto, e si riempie di emozione, io stesso, il paziente, e il “pubblico”, vibriamo, tutti insieme,

affascinati dalla bellezza di ciò che accade: lo “spettacolo” è un atto creativo. Per cogliere il senso di ciò che accade uso molto l’intuito e do spazio ai miei vissuti emotivi, voglio essere una persona e non un tecnico. Mi commuovo quando in momenti speciali la seduta di terapia diventa un “danzare insieme”. Con il tempo le sessioni sono diventate più vive, meno formali. Continuo ad apprendere da varie fonti e sperimento su me stesso. Seguo da tempo insegnamenti di maestri spirituali.

Coltivo la conoscenza degli Enneatipi come teoria della personalità e come via per l’autorealizzazione. Applico la teoria del Copione con i suoi innumerevoli risvolti. Tutto questo costituisce lo sfondo, al quale non penso, non guardo, mentre lavoro, ma è ovvio, lo sfondo influenza, e c’è, ed essendoci, se voglio, posso ispirarmi. In sintesi la mia terapia è frutto di teoria, conoscenza diretta, intuito, e capacità di stare nella relazione con una certa dose di trasparenza e partecipazione, non per compulsione, ma quando serve. Questi strumenti, che in maniera implicita ed esplicita passo ai miei allievi, rappresentano il mio contributo alla formazione degli psicologi clinici. O meglio, degli psicoterapeuti esistenziali. Preferisco definirli così, come a voler sottolineare la mia attenzione verso il “modo di stare al mondo”, e per il valore che attribuisco a quei fattori che appartengono alla coscienza sottile, allo spirito; fattori che guidano l’esistenza umana, e ispirano la Gestalt.

 

Mariano Pizzimenti

Quello che dici tu, Antonio, mi fa ripensare ai primi armi della mia pratica dopo la formazione in psicoterapia della Gestalt. Posso affermare che allora non “lavoravo con la Gestalt”, bensì “usavo la Gestalt”. Come succede a molti allievi, mi ero innamorato del mio formatore ed ero rimasto affascinato della sua abilità di costruire esperienze per le persone, di utilizzare varie strategie per portare le persone a vivere emotivamente il “qui e ora”. Ed è ciò che ho fatto per diversi anni.

Del resto all’epoca si spiegava abbastanza poco della teoria, la didattica era soprattutto “pratica” e molta di questa avveniva per imitazione. Ho impiegato diversi anni per comprendere che la Gestalt, cioè la forma che assume l’esperienza significante, viene creata insieme e non sono io a crearla per la persona. Da qui il concetto di “campo” ha cominciato ad acquisire sempre più spessore, insieme con la comprensione che intervenire sull’intrapsichico della persona o lavorare sul e nel campo sono scelte epistemologiche diverse che comportano anche, come ho detto sopra, un diverso stato di presenza da parte del terapeuta. Credo che il rifiuto di operare nell’intrapsichico fosse già presente nel lavoro dei nostri padri fondatori e si sia espresso attraverso il rifiuto a sviluppare una caratteriologia e una diagnostica intrapsichica, ma che solo negli ultimi anni si stia arrivando a un approfondimento teorico di questo diverso modo di intendere la psicologia. Anche la comprensione del “confine di contatto” è per me oggi diversa e molto più pregnante. Mi piacerebbe riparlarne più avanti.

 

Riccardo Zerbetto

Ricordo, nei primi anni, il mio grande interesse per le tecniche. Quelle tratte, ad esempio, da Awareness di Barrie Stevens (1983) e che Barrie Simmons usava spesso. Conservo ancora un libricino con questi esercizi catalogati per situazioni diverse. Ora… è come se fossero andate nello sfondo. In figura c’è la scoperta sempre nuova dell’alchimia tra un Io e un Tu e di quella terza “cosa” che può nascere e di cui si possono avere all’inizio solo vaghi indizi.

 

Dan Bloom

La psicoterapia della Gestalt possiede una epistemologia, una antropologia e un metodo clinico propri. La tua comprensione dei concetti chiave della psicoterapia della Gestalt come si è evoluta e come è cambiata negli anni della tua esperienza pratica? E poi vorrei chiederti: quali aspetti teorici della psicoterapia della Gestalt pensi che maggiormente necessitino di sviluppo?

 

Margherita Spagnuolo Lobb

Negli anni ’80 – ‘90 tutte le scienze si sono rivolte alla relazione, modificando con decisione il paradigma intrapsichico in quello che io definisco della traità co-creata (Spagnuolo Lobb, Amendt-Lyon, 2003). In altre parole, quando un paziente ci dice: “Stanotte ero agitato e non ho dormito”, non ci sta solo esprimendo un vissuto che appartiene alla sua interiorità, ma ci sta anche rivelando qualcosa che appartiene alla relazione con noi in quanto terapeuti.

Forse vuole comunicarci un’ansia che riguarda la seduta precedente, o quella che sta per iniziare; potrebbe per esempio volerci dire: “Nella seduta scorsa è accaduto qualcosa che mi ha messo in ansia. Spero che oggi ti renda conto dell’effetto che ha avuto su di me e che tu sia in grado di proteggermi dagli effetti negativi”. Come ho già detto prima, questa lettura centrata sul “tra”, su ciò che accade al confine di contatto tra terapeuta e paziente, ci consente di uscire da una tradizionale ottica intrapsichica che vede la cura come un processo legato alla soddisfazione (o sublimazione) dei bisogni, per entrare nella prospettiva post-moderna in cui non ci sono più punti di riferimento prestabiliti ma nuove realtà da creare di  momento in momento.

 

Antonio Ferrara

Ci sono aspetti da sviluppare, ho già detto, e altri da rapportare ai nostri tempi. Per esempio, i temi della responsabilità, dell’autonomia, fino all’essere “ontologico” di Perls, assumono oggi significati ulteriori. La Gestalt nacque in un’epoca in cui era forte il peso dell’autorità che reprimeva bisogni, impulsi e desideri. Nella cultura del nostro tempo, al contrario, c’è molta, apparente, libertà. Di fatto manca il genitore guida. Non il Super-Io, come spesso si dice, che ha solo cambiato struttura. Il Super Io è frutto di elaborazioni interne e oggi, proprio a causa della poca guida, può diventare più spietato che nel passato, in quanto costruito da un bambino fragile e irrazionale che non ha riferimenti autorevoli da seguire e neanche oppressori ai quali soggiacere. E le ragioni sono tante. Il bambino ha bisogno di limiti e se non li riceve li crea, costruisce personaggi interni per autoregolarsi. Nascono dalla sua mente infantile e sono terrifici e potenti. Dominano nei dialoghi interni, mettono paura, e non si può che obbedire. Quando si ribella lo fa identificandosi nei mostri autogenerati e diventa distruttivo.

Ci sono tante autorità oggi, ma invisibili e senza potere effettivo, diluito com’è tra miriadi di enti e soggetti che funzionano guidati più dagli scopi, gli obiettivi e le procedure che non dalle persone. Si è persa l’anima. Tutto questo crea smarrimento, paura, e favorisce lo sviluppo di un tipo di persona che “galleggia sulla vita”, come mi piace dire, senza valori, che non sa dove va, spinto da bisogni e desideri che di giorno in giorno si moltiplicano, e diventano miraggio di felicità. Bisogna riscoprire l’anima. Il terapeuta non può limitarsi alla cura del disagio e del sintomo, serve un riferimento al quale ispirarsi, per apprendere valori e dar senso alla vita. La caccia alla felicità per vie consumistiche crea sconforto, delusione e infine vuoto esistenziale. Il piacere e la gioia vengono dalle cose semplici e dall’amore. Il paziente che esce dal suo egocentrismo e si apre all’altro, smette di accusare genitori, famiglia e mondo, nei quali cerca la causa dei propri problemi. Assume responsabilità e comincia ad agire. Impara a sentire gratitudine per quanto comunque ha ricevuto, come suggerisce Hellinger (2007).

La sofferenza è anche frutto di esagerata attenzione a sé stessi. È importante il lavoro nei gruppi, soprattutto se grandi. Le interazioni si moltiplicano. Lo stare insieme, in un clima di trasparenza, e praticando meditazione interpersonale, così come l’ha inventata Naranjo, centrata su attenzione al presente e intimità con l’altro, produce cambiamento che coinvolge l’intera comunità e cambia la cultura. Queste esperienze sono nate nel mondo della Gestalt, e sono anche il suo futuro. Spostano l’attenzione dagli individui all’insieme.

 

Mariano Pizzimenti

Ritengo ci sia ancora bisogno di approfondire le implicazioni derivanti dal concetto “figura-sfondo”. Per esempio, il confine di contatto è qualcosa che può esistere solo tra una figura e uno sfondo. Non può esserci confine di contatto tra due figure. Due figure possono essere tra loro in relazione, ma non in contatto, a meno che una delle due non diventi sfondo per l’altra. Ciò marca quindi una differenza tra “relazione” e “contatto” e di conseguenza tra la terapia della Gestalt e la maggior parte degli approcci psicoterapici che affermano che il punto centrale del lavoro terapeutico è la relazione, ma non parlano del processo di contatto. Anche il concetto di “sfondo” credo necessiti di maggiore approfondimento. Abbiamo parlato molto di “buona figura” o “figura forte”, ma non altrettanto di “buono sfondo” o “sfondo forte”. Eppure lo sfondo è ciò che contiene tutte le possibili figure e se non è in grado di reggere la tensione tra le differenze non potrà nutrire adeguatamente la figura emergente. Maggiore attenzione allo sfondo vuol dire maggiore attenzione alla dialettica delle differenze, che reputo molto importante nella nostra epoca.

 

Riccardo Zerbetto

Cari colleghi, come voi penso che la teoria della psicoterapia della Gestalt abbia ancora grandi potenzialità di sviluppo, anche grazie ad un allargamento di contesto ben al di là dell’ambito specifico della psicoterapia in senso stretto. Alcune di tali direttrici, a mio avviso, potrebbero riguardare:

a) l’approfondimento dei collegamenti tra fenomeni senso-percettivi, strutture cognitive ed emozioni. Le implicazioni a livello clinico ed esistenziale della funzione discriminativa tra figura e sfondo non sono ancora state esplorate adeguatamente;

b) il concetto di gestalt rimanda al processo della gestaltung, e cioè alla morfogenesi che rappresenta la natura essenziale del processo evolutivo dell’universo. Come suggeriva Smuts (Robine, 1993), autore tutto da riscoprire, è l’insieme che ordina la composizione e lo sviluppo delle parti;

c) la valorizzazione della teoria del campo, che rappresenta il presupposto interazionista della concezione gestaltica;

d) importante, inoltre, raccordare i temi collegati allo sviluppo della personalità, specie nelle prime età, alle recenti acquisizioni in tema di teoria dell’attaccamento e della relazione madre/bambino come paradigma originario della relazione individuo/ambiente (meritevole in tal senso di contributo tuo, Margherita, nell’acquisire i fondamentali apporti di Daniel Stern);

e) raccordare le gestalt individuali con quelle archetipiche attraverso lo studio non tanto del mito quanto della dinamica mitopoietica. Sul tema delle gestalt archetipiche ho orientato buona parte della mia ricerca degli ultimi anni (Zerbetto, 2007, 2008a, 2008b);

f) al di là di una apparente “distanza” di Perls nei confronti di Jung (accusato da Perls di astrattezza ed eccessiva enfasi attribuita al concetto di inconscio) assistiamo di fatto a frequenti e feconde ibridazioni tra il modello gestaltico e quello junghiano, in particolare a seguito dei fondamentali apporti di James Hillman. Penso adesso al lavoro sul sogno: la tecnica della immaginazione attiva, l’identificazione del sognatore in tutte le parti presentificate dal sogno, e la drammatizzazione tra le parti…

g) accettare una maggiore familiarità con il linguaggio dei simboli e con le valenze culturali a cui gli stessi possono rimandare (vedi gli interventi in ambito multietnico). Infatti il mito, per sua natura, si offre ad una molteplicità di prospettive interpretative. Apre scenari che superano una interpretazione a senso unico tipica di sistemi ideologici di orientamento monistico. Evoca più che spiegare;

h) va avviato lo studio delle strutture (gestalt) personalità sul quale la pregiudiziale negativa contro il diagnosticismo stereotipo ha pesato sino ad ora. Si rende in tal senso auspicabile acquisire il principio già anticipato da Koffka circa le configurazioni di personalità (già individuate, seppure in modo approssimativo e grossolano come stili nevrotici). A conclusione del suo prezioso, e sicuramente sottovalutato, volume si Principles of Gestalt Psychology del 1935, Kurt Koffka si chiede “La personalità è una Gestalt? E, se lo è, di che tipo di Gestalt di tratta?”. Queste sono domande concrete e in quanto tali consentono una ricerca basata su metodi scientifici.

 

Margherita Spagnuolo Lobb

Ringrazio Riccardo per riconoscere il mio lavoro di diffusione della psicoterapia della Gestalt nel mondo più vasto della psicoterapia. Su questo argomento degli “aggiornamenti” e delle “rivisitazioni” auspicabili, vorrei aggiungere altro. Una delle critiche che nel 1950 i fondatori della psicoterapia della Gestalt fecero al metodo psicoanalitico (in cui tutti erano profondamente immersi) fu sintetizzata nel concetto di egotismo. Si tratta della “malattia” che perfino noi psicoterapeuti della Gestalt (diceva ironicamente Isadore From) diamo ai nostri pazienti: li rendiamo perfettamente edotti nel loro processo psichico, ma non li rendiamo spontanei, pieni di quello spirito curioso e vitale che la nevrosi gli ha tolto. È questa la sfida che la psicoterapia della Gestalt continua a porsi: riferirsi ad una teoria che colga la spontaneità delle relazioni umane senza devitalizzarle e ad un metodo clinico capace di ridare il “soffio vitale” a chi ha dovuto sopprimerlo o ridurlo. Questa prospettiva è lo sfondo costante di ogni evoluzione teorica, e oggi dobbiamo capire come questa fede nella spontaneità delle relazioni umane può essere un modello valido per “curare” il disagio di cui ho parlato nel punto precedente. Rispetto agli enneagrammi, mi chiedo come una classificazione enneatipica possa rispondere ad un’ottica processuale; inoltre, mi sembra che sia coerente con un paradigma individualista, più che di contatto. Sono fiduciosa che in futuro si possa approfondire il nostro dialogo su questo aspetto.

Sviluppare il nostro paradigma della sanità come spontaneità implica l’urgenza di scrivere su un nuovo concetto di psicopatologia. Fino agli anni ‘80 era un tabù per noi parlare di psicopatologia, come se questo potesse implicare un tradimento del concetto di adattamento creativo (se ogni sintomo esprime un adattamento creativo, come possiamo separare il “sano” dal “patologico”?). Oggi non possiamo tenerci fuori dal dibattito sulla psicopatologia, anzi dobbiamo portare il nostro contributo ai recenti studi su questo argomento.

Chiaramente, parlare di psicopatologia implica parlare di teoria evolutiva in psicoterapia della Gestalt, e su questo aspetto devo dire che la recente opera di Ruella Frank (2005) costituisce un contributo fondamentale.

Un altro concetto che mi piacerebbe che venisse rivisitato è quello per noi fondante di “aggressione dentale” (Perls, 1995), al fine di trovare modi di cura che non consentano soltanto di liberare la potenzialità aggressiva e autonoma del paziente ma che ci mettano in grado di curare efficacemente i disturbi d’ansia e il senso di desensibilizzazione e disorientamento emozionale che vige nella società contemporanea.

Mi piacerebbe che questi concetti venissero applicati sempre di più nel setting di coppia e di famiglia, in cui l’obiettivo è che ogni membro della coppia o della famiglia si riappropri della spontanea creatività da cui è caratterizzata ogni relazione significativa. Il nostro scopo non è che i partner non litighino, ma che siano capaci di divertirsi e di sentirsi vivi, integri, creativi al confine di contatto della loro relazione.

 

Giuseppe Sampognaro

Restando sulla riflessione circa la nostra identità in continua evoluzione, la Direzione dei Quaderni di Gestalt  ha coinvolto la professoressa Angela  Maria Di Vita, una decana universitaria, che per tutta la sua carriera ha seguito da vicino, con grande passione, le vicende della psicoterapia italiana; non attraverso la pratica ma attraverso la ricerca, mantenendo un dialogo costante con le varie scuole di psicoterapia. Alla domanda: “Che cosa ti incuriosisce della psicoterapia e degli psicoterapeuti della Gestalt in questi anni?”, la professoressa si è orientata su aspetti evolutivi che riguardano le tecniche e la formazione.

 

Angela Maria Di Vita [7]

Tenendo conto della specificità e del valore clinico di ogni approccio, il modello della psicoterapia della Gestalt sottolinea l’importanza degli aspetti non interpretativi della cura psicologica, cogliendo in tal modo la fenomenologia dell’hic et nunc e il processo terapeutico nello spazio esperienziale tra terapeuta e paziente; allo stesso tempo, la ricerca sui processi, seppur consenta di esplorare le modalità con cui si verificano i cambiamenti, può tuttavia rendere complessa la valutazione dell’esito dell’intervento terapeutico stesso. Per questo vorrei chiedere a ogni collega: rispetto all’evoluzione del modello della psicoterapia della Gestalt dal punto di vista della pratica terapeutica, hai rilevato un cambiamento nelle metodiche di osservazione e di intervento della psicoterapia della Gestalt negli ultimi anni?

 

Margherita Spagnuolo Lobb

Certamente. In linea con quanto detto in precedenza, ciò che uno psicoterapeuta osserva oggi nel setting è più centrato su ciò che accade nell’esperienza co-creata, nel qui-e-ora del contatto tra terapeuta e paziente. Se qualche decennio fa il terapeuta della Gestalt guardava alle inibizioni dell’espressione di sé del paziente, oggi guarda a come lui, terapeuta, partecipa a creare l’inibizione del paziente, e a come può sostenere l’energia, o l’intenzionalità di contatto che esiste sempre nel vissuto della persona, come nell’esempio che ho fatto precedentemente sul sogno del paziente. Inoltre, il tema dell’inibizione dell’autorealizzazione è meno centrale, in quanto le esigenze sociali oggi vanno più sul versante del sentire corporeo per far fronte alla desensibilizzazione dilagante che caratterizza tutti gli esempi di disagio sociale. Quindi la cura è più orientata alla co-creazione di nuovi schemi relazionali nel contatto reale tra terapeuta e paziente.

 

Antonio Ferrara

Oggi si dà maggior attenzione agli aspetti relazionali, in passato l’interesse era più rivolto all’esprimersi con emozione e verità. Prevalsero le tecniche, così potenti che a volte sembrava lavorassero da sole. Per me sono importanti i principi ispiratori del primo Perls, tra i quali l’indifferenza creativa e il vuoto fertile, che considero basi per una teoria della personalità.

Ricordo che Perls apprese da Friedlaender il concetto di polarizzazione, da cui elaborò modalità concrete di lavoro, come quello delle due sedie, rivolto a definire le differenze e a favorire l’integrazione delle parti. Le polarità sono pezzi di esperienza separati tra loro che sostengono il dialogo interno. Il loro mancato incontro mantiene la frammentazione che, come insegnano le tradizioni spirituali, è alla base della visione dualistica, causa di sofferenza. In Gestalt parleremmo di mancata assimilazione.

Il benessere è nell’unità. Da Friedlaender viene anche l’idea di un vuoto dotato di potenziale creativo, ed è proprio il contatto con questo stato di coscienza che favorisce il “ritorno a casa”, e stimola la pacificazione dei dialoghi interni che, tenuti in vita da scissioni e contrasti, allontanano dalla propria natura autentica. Oltre agli strumenti meditativi, vie elettive, serve “accettazione”, come lo stesso Perls suggerisce. Accettare è un atteggiamento, una condizione della mente, che permette di restare nell’esperienza, anche negativa, vivendo quello che è. Non aiuta fantasticare che possa essere altro. Tristezza è tristezza. Tentare di scacciarla, lottando contro di essa, produce altra sofferenza. Accogliendola, dopo un tempo si esaurisce. Lo sappiamo, ogni contatto, purché autentico, dopo il momento culmine, per sua natura si dissolve, fa spazio ad altro. È paradossale, bisogna opporsi per impedire che l’esperienza negativa naturalmente si estingua. Siamo “attaccati” allo star male e a ciò che limita. È la condizione della mente umana. Ma nello stato naturale, dal vuoto che resta dopo il contatto, emerge la saggezza, e l’autoregolazione organismica. Questa modalità di pensare e praticare favorisce il “continuo” di esperienza, il qui e ora, nel quale consapevolezza e presenza, unite, sono la guida per l’azione. Lasciare la mente vuota permette di sperimentare il nuovo. Non serve sforzo ma, al contrario, il lasciare andare, mollare la presa.

Questa intenzione è favorita quando integriamo meditazione e terapia, come propone Naranjo. Infine, rispondendo alla prof.ssa Di Vita, più che dire cos’è cambiato mi piacerebbe sottolineare   che è vivo un elemento di continuità con i principi ispiratori, leggi universali, dai quali discendono ulteriori sviluppi. Anche nell’incontro tra paziente e terapeuta è possibile sperimentare lo stato di presenza senza far nulla, con attenzione al silenzio, al vuoto interiore. Di lì nascono esperienze ricche e insospettate, e il dialogo diventa vivo.

 

Mariano Pizzimenti

In che modo è cambiato il mio metodo di lavoro? La parola metodo mi mette in difficoltà. Non credo di essere cambiato nel “metodo”, ma so che ora lavoro prevalentemente identificandomi con lo sfondo.

Mi spiego. Un aspetto importante del lavoro della psicoterapia della Gestalt è sostenere la persona a identificarsi con la figura emergente alienandosi dalle figure cristallizzate non più utili nel campo attuale in cui è immersa. La particolarità della psicoterapia della Gestalt è che questo obiettivo è perseguito attraverso un processo quasi educativo, cioè attraverso l’esperienza del confronto e del contatto col terapeuta. È tramite questo contatto che il paziente sperimenta il processo di alienazione e identificazione con le figure che si formano in seduta.

Come diceva Perls, la terapia è un incontro tra due persone dove almeno una delle due corra il rischio di essere se stessa. Questo “correre il rischio di essere sé stessi” è contemporaneamente un confronto, che rende palese al paziente se sta ripetendo modi di essere automatici e privi di efficacia nella situazione attuale, e un prestarsi al paziente (componente educativa), mostrandogli esperienzialmente “come si fa”.

Ho l’impressione che questo sia stato fatto per molto tempo ponendosi come figura nel confronto del paziente. Io terapeuta mi definivo come figura e in questo processo di definizione, permettevo al paziente di definirsi. È noto che nella terapia della Gestalt usiamo molto la relazione simpatica. Cioè le sensazioni e le emozioni che io terapeuta sperimento durante la seduta le considero parte del lavoro e le faccio emergere nella seduta stessa, pur scegliendo i modi e i tempi adatti alla persona e alla situazione. Le mie sensazioni, le mie emozioni, sono quindi figure emergenti con cui mi identifico. Ecco ancora la doppia valenza di confronto e processo educativo. Questo è tuttora il lavoro che noi gestaltisti facciamo. Resta comunque il fatto che possiamo agire identificandoci con la figura o con lo sfondo. Se mi identifico con la figura, braccherò il paziente. Le mie idee, le mie diagnosi, le mie emozioni, diventeranno un modo per metterlo all’angolo, per metterlo in crisi, costringendolo a incontrare le parti di sé che cercava di evitare.

Se mi identifico con lo sfondo, le mie emozioni, sensazioni, intuizioni, i miei dubbi e le osservazioni saranno sempre presenti, ma come elementi arricchenti lo sfondo su cui emerge il paziente e che contribuiranno a meglio farlo risaltare come figura, a definirsi, a riconoscersi. Credo che noi terapeuti dobbiamo maggiormente sostenere gli sfondi e, come sempre, il modo più efficace è usare noi stessi, la nostra capacità di identificazione e di sperimentare quello stato di presenza che è stato chiamato “il vuoto fertile”.

 

Riccardo Zerbetto

In un suo libro, L’approccio della Gestalt. Testimone oculare della terapia, Perls (1977) usa una metafora molto interessante, quella della spola (shuttle) che oscilla tra contatto con il mondo esterno e contatto con il mondo interno. Se mi offrono un caffè, per fare un esempio, è inevitabile che si ponga in atto questa duplice valenza: dire di sì per cortesia e magari avere il dubbio che non mi faccia dormire la notte. Solo se so “oscillare” in modo consapevole tra questi due mondi potrò trovare la mediazione giusta e la risposta adeguata. L’enfasi posta recentemente sulla interazione non dovrebbe, a parer mio, portarci a sottovalutare la “funzione-es” o il contatto con il mondo interno che non può ridursi al contatto con la nostra sfera biologico-istintuale: riguarda anche il mondo interno in senso lato e quella voce che Socrate ci invita ad ascoltare.

 

Angela Maria Di Vita

Quale è stato secondo te il contributo della teoria e della pratica della psicoterapia della Gestalt alla formazione degli psicologici clinici?

 

Margherita Spagnolo Lobb

Mi piace questa domanda, perché forse ce la poniamo ancora troppo poco nella comunità gestaltica.

Se posso permettermi una nota di autocritica, siamo ancora facile preda della fiducia cieca nell’improvvisazione (a cui il modello della personalità di Perls ha portato) e poco inclini alla riflessione.

Sintetizzerei, tra i tanti aspetti originali portati dalla psicoterapia della Gestalt alla psicologia clinica, i seguenti: Il valore dell’unitarietà organismo-ambiente; L’intenzionalità di contatto come chiave di lettura delle relazioni; Il valore estetico come etica delle relazioni.

Il concetto di esperienza unica e indivisibile (Bloom, Spagnuolo Lobb, Staemmler, 2008) e il concetto di campo unitario organismo/ambiente che i fondatori della psicoterapia della Gestalt hanno espresso in modo netto, contro le dicotomie insite nella cultura occidentale, restano una luce nuova e importante per gli psicologi clinici.

Questa “fede” nell’esperienza indivisibile ha portato negli ultimi anni a sviluppare il concetto di intenzionalità-di-contatto, come applicazione gestaltica del postulato fenomenologico che definisce ogni accadere umano come sostenuto da un’intenzionalità. Grazie a questo concetto, possiamo fornire agli psicologi clinici uno strumento per uscire da una prospettiva analitica (che vede la possibilità di cura nella conoscenza del disturbo) e rivolgersi ad una prospettiva proattiva, più utile e veloce per una cura mirata alla realizzazione di possibilità future più che ad analisi del passato.

Anche il guardare alle relazioni umane dal punto di vista estetico e assumere l’estetica come etica del vivere sociale ha un grande potere innovativo (Kitzler, 2003; Bloom, 2003). Quando guardiamo un bambino che si ribella alla maestra, cerchiamo l’intenzionalità di contatto che c’è in quel comportamento, e lo cerchiamo nel modo in cui egli respira, in cui guarda la maestra, in cui tende o rilassa il suo corpo. Guardiamo anche con quale “musica” la maestra risponde, e cerchiamo di sostenere la “musica” che entrambi vogliono suonare nel loro incontro. Questo valore estetico mi sembra ancora un valore nuovo e potente nel mondo della psicologia clinica, che forse solo adesso i ricercatori infantili che si rifanno alla corrente intersoggettiva stanno scoprendo (Mitchell 2000; Stern, 2000; Beebe e Lachman, 2002), con nostro orgoglio.

 

Mariano Pizzimenti

Il più importante che mi viene in mente è il passaggio da “lavorare sulla persona” a “lavorare con la persona”. Il che, da un punto di vista teorico, deriva dal superamento della psicologia dell’individuo a favore di una psicologia del “campo”. Se io terapeuta lavoro in un’ottica di campo, so che nel momento della seduta sono parte del campo del paziente, quindi non posso pretendere di essere un osservatore esterno che interviene sull’altro, ma sarò parte di un’esperienza unica e irripetibile. Del resto, lo stesso Perls sosteneva che “se una seduta è stata efficace, alla fine non è cambiato solo il paziente, ma anche il terapeuta”.

 

Riccardo Zerbetto

Un contributo che, sino ad ora, è stato più implicito che esplicito ma che può sintetizzarsi in alcuni grandi temi che stanno divenendo sempre più patrimonio condiviso: una attenzione alla persona nel suo viversi nel presente, un’attenzione alla sua dimensione emotiva e corporea con una maggiore sensibilità al come dice le parole che dice o che non dice, un atteggiamento meno propenso alla interpretazione o alla manipolazione direttiva e più centrato sul far emergere livelli di consapevolezza ed assunzione di responsabilità nei confronti dei propri vissuti oltre che dei comportamenti; un aspetto che tiene sempre di vista il “campo” nel quale il paziente si muove e la dimensione solistica della persona.

 

Giuseppe Sampognaro

Cari colleghi, dal vostro confronto dialettico viene fuori un panorama di idee portanti e di impostazioni di lavoro davvero variegato.

Ciascuno di voi indica obiettivi focali e particolari percorsi metodologici per conseguirli: Ferrara pone l’accento sulla pacificazione interna e quindi sul concetto di “accettazione”, sottolineando l’importanza dell’autonomia e della responsabilità; Pizzimenti si sofferma sulla psicoterapia come processo “educativo” all’interno del salutare confronto-contatto tra paziente e terapeuta; Zerbetto parla di io/pelle e io/mondo, e recupera aspetti archetipici e sapienziali in qualche modo legati alla cultura dell’intrapsichico; Spagnuolo Lobb si sofferma sull’estetica del processo terapeutico e sulla co-creazione che ha come finalità il ripristino di una spontaneità creatrice del sé. Per tirare le fila di un discorso tanto interessante quanto articolato, vorrei invitarvi a rispondere a un’ultima domanda. Ormai da diversi anni il dibattito scientifico in psicologia clinica è finalizzato a individuare l’essenza della psicoterapia, cioè i fattori su cui si basa l’intervento psicoterapico per definire che cosa – praticamente – produce e favorisce il cambiamento.

Secondo voi, anche tenendo in considerazione le diversità e le specificità che dalle risposte sin qui date emergono all’interno del nostro approccio, è possibile individuare un comune denominatore su cui fa leva la psicoterapia della Gestalt per centrare l’obiettivo della cura?

 

Antonio Ferrara

È difficile per me selezionare un comune denominatore. Metterei al primo posto la crescita personale del terapeuta. Credo che alla base della Gestalt, quello che fa la differenza con le altre terapie sia la spinta al conoscersi, attraverso esperienze effettive, non solo elaborazioni concettuali. Rispondere alla domanda “chi sono Io”. Conoscersi prevede un atto di umiltà, per poter visitare e riconoscere i propri limiti e permettersi, come essere umano, di averne. Questa attitudine facilita la trasparenza e il coraggio di mostrarsi “come si è”, il che include sentire il diritto di far parte di questo mondo. Occorre anche intendere che l’essere “come si è” comunque è frutto di un adattamento preso intenzionalmente per avere il maggior vantaggio con il minor rischio possibile. Essere “come si è”, comporta autenticità, che non è “chi veramente sono”, questo resta un mistero.

Voglio anche dare una risposta sintetica a Margherita circa la conoscenza dell’Enneagramma, condivisa da molti gestaltisti. Non e una “classificazione”, come pensa e come forse può apparire dai tanti libri e libercoli che sono oggi in circolazione. Si tratta di una antichissima tradizione esoterica, una scuola di conoscenza i cui obiettivi sono l’autorealizzazione. Si avvale di strumenti meditativi e di auto-esplorazione, oltre a comprendere una articolata teoria della personalità. Non si tratta di affibbiare il nome di un tipo o un’etichetta, questo è folclore, ma piuttosto di “conoscersi” attraverso un viaggio che dura anni, e per il quale serve un maestro in grado di trasmettere la conoscenza. Come in Gestalt, e prima di essa, si ricerca il vuoto come origine dell’esperienza, e si mira alla saggezza che viene dalla spontaneità dell’autoregolazione organismica, utilizzando a questo scopo l’insegnamento di antichi e moderni saggi.

 

Mariano Pizzimenti

Mi sembra che il comune denominatore tra tutto ciò che abbiamo detto è la ricerca dell’ESSERCI. Esser-ci. Non solo il mio essere nella seduta.

Non è solo la qualità della mia presenza, che può essere diversa in come lavoro io o come lavora Antonio o Margherita o Riccardo, ma tutti noi lavoriamo per creare insieme con l’altro questo momento di essere insieme nella situazione.

La Gestalt ha un credo fondante: la cellula più piccola e indivisibile è individuo e il suo ambiente. C’è una storia che si racconta del Buddha. Quando Buddha morì e arrivò alla porta del paradiso, si fermò e si sedette fuori dalla porta. I vari santi all’interno lo invitarono a entrare dicendogli che lo aspettavano. Ma Buddha si rifiutò di entrare dicendo che sarebbe rimasto fuori ad aspettare, perché non poteva entrare in paradiso finché anche una sola persona sulla terra avesse continuato a soffrire. Questa storia, pur nella sua idealizzazione, indica il bisogno fondamentale di esser-ci: l’esperienza di essere in contatto con ciò che ci succede insieme.

Un momento di contatto vissuto in solitudine non è vero contatto, può essere un momento di preparazione, un momento transitorio. Esser-ci è l’esperienza di essere in contatto con l’altro che mi fa da sfondo e mi permette di risaltare grazie al nostro esser-ci e viceversa.

L’esser-ci è ancora diverso da essere con: io posso essere con una persona che soffre, mentre questa è chiusa nella sua sofferenza. Questi sono momenti importanti nella terapia, io sono con lui, ma in quel momento, lui può non essere con me.

Ricordo quando stavo vicino a mio padre che stava morendo e lui era perso nel suo delirio in cui riviveva momenti della gioventù, parlava con persone della sua giovinezza che vedeva accanto a sé. In quel momento io gli stavo vicino, ero sdraiato nel letto accanto a lui. A un certo punto mio padre si fermò in questo delirio, si girò verso di me, mi guardò, mi sorrise e disse: “Certo che mi vuoi davvero bene”, e io potei solo dire: “Sì”. Lui mi sorrise ancora, poi distolse lo sguardo e riprese il suo delirio. Ecco, quello fu un momento di esser-ci.

Credo che in quel momento lui abbia potuto accettare il mio amore per lui; il suo amore per me non era mai stato in dubbio, ma per lui era sempre stato molto difficile sentirsi amato. In quel momento lui poté accettarlo e io sentii che lo provavo e glielo trasmettevo: questo creò un esser-ci che non so quante volte fosse avvenuto nella nostra storia insieme.

Questo esser-ci lo costruiamo tutti noi gestaltisti. C’è nel mio educare, inteso come prestare me stesso, c’è nell’io-mondo, nella co-creazione, nell’accettare. Come lo facciamo può cambiare dallo stile di ognuno di noi, dal metodo o forse dalla patologia di ogni terapeuta.

Esserci vuol dire “Ci siamo” e ha tre significati: “siamo ora”, “siamo qui”, “siamo insieme”. Questi sono i momenti che quando avvengono danno senso alla vita. Credo che noi lavoriamo perché questi momenti siano più frequenti nella vita delle persone, così magari non dobbiamo aspettare di essere in punto di morte per sperimentare un momento di “ci siamo”.

Questa è l’esperienza che noi gestaltisti costruiamo con le persone, ciò che sperimentiamo e che comprendiamo come stato di benessere. Come riuscirci, questo tutti noi lo stiamo ancora imparando. Lo stiamo imparando dal mondo intorno a noi, dalle persone con cui lavoriamo, dai nostri colleghi. Lo stiamo imparando e questo è il processo creativo della Gestalt che oggi già non è più quella di ieri e che da questi incontri fra le differenze sarà, domani, diversa da quella di oggi.

 

Riccardo Zerbetto

Quella del common ground è per me da tempo una specie di ossessione… Non a caso ho dedicato a questo tema il congresso della European Association for Psychotherapy nel 1996. Nel volume degli atti (Fondamenti comuni e diversità di approccio in psicoterapia editi da Franco Angeli), compaiono anche contributi di Antonio e Margherita, a firma congiunta con la mia (un esempio non comune di co-creazione East-West…). Nella introduzione al volume citato mi sono riproposto il quesito che oggi ci pone Giuseppe. Ma ho fallito nel tentare una risposta. Una seconda angolatura dalla quale mi sono posto il quesito è questa: se la psicoterapia risponde a un bisogno ontologico dell’uomo… come mai è nata solo un secolo fa? Quello che avviene (o meglio, che può avvenire) in un incontro di psicoterapia ci è ancora in gran parte sconosciuto. Vedi il rilievo dato alle cosiddette “componenti aspecifiche” da cui sembrano dipendere la maggior parte dei risultati.

La psicoterapia è uno spazio “sacro” (come già Gregory Bateson suggerisce) nel senso etimologico (dal sanscrito) di “ritagliato, separato” dal flusso ordinario del vivere. Uno spazio che, partendo dalle funzioni primarie del sé a livello “organismico” (il respiro, lo “stare nella propria pelle”, il contatto con i bisogni, le paure, le aspirazioni ecc. come unità mente-corpo) ci porta, come su un piano inclinato (per dirla con Plotino) verso la evocazione di qualcosa che possiamo avvicinare al “vero sé”. Un percorso che guarda a ritroso nella storia dell’individuo, ma che si connota di una forte presa di coscienza sul presente per potere intravedere un possibile sbocco esistenziale nel futuro (Freud, Perls, Jung… finalmente insieme!). Un percorso nel quale il terapeuta si pone come “accompagnatore” dell’anima-psyché con una posizione maieutica. Quella cioè della levatrice che aiuta a far emergere la verità interiore che ciascuno potenzialmente porta con sé. Quella unicità – anche tragica in quanto ineludibilmente connotata da un elemento di solitudine – a cui possiamo attribuire il misterioso termine di daimon. Uno spazio, ancora, nel quale poter dire quello che in genere non facile o possibile dire. L’indicibile, quindi. Sia nei suoi aspetti di splendore che di infamia. Cosa possibile solo se l’ascoltatore sa creare un utero il più possibile accogliente, incontaminato ed insieme ricco di elementi nutriti nel quale il processo gestazionale di una nuova identità possa trovare le condizioni adatte per riprendere il suo percorso evolutivo. In definitiva… chi è in grado di fare questo? Ma già è tanto esserne consapevoli.

 

Margherita Spagnuolo Lobb

Penso che ci sono delle cose fondamentali che ci uniscono e che ci consentono di costituirci come comunità che lavora con lo stesso credo e che riflette partendo da presupposti comuni. Il recente congresso di Madrid ci ha visti testimoni di differenze teoriche e metodologiche, ma anche di irriducibili comunanze di intenti.

Lo spirito rivoluzionario che portava i fondatori a ribellarsi alle verità precostituite e a cercare un metodo che mantenesse l’autenticità sia del paziente che del terapeuta è ancora oggi ciò a cui teniamo di più e per cui scegliamo di dedicare la nostra professione a questo approccio. I coniugi Perls erano partiti dalla ricerca di una chiave di lettura della normalità, della spontanea regolazione dell’organismo e del rapporto curativo tra essere umano e natura e tra individuo e gruppo sociale. Se il bambino ha la capacità fisiologica di mordere e di destrutturare la realtà, perché non aiutare il paziente che soffre a mantenere questa capacità di sopravvivenza? Che senso ha invece aiutarlo a sublimare le sue capacità critiche e aspettarci che si conformi alle regole sociali ancora prima che possa criticarle? Il nostro sogno, in qualsiasi linguaggio specifico lo articoliamo, rimane sempre quello dei fondatori, ossia di costruire un modello teorico e clinico che si confaccia alla spontaneità del funzionamento umano, che non si riduca a una devitalizzazione di esso.

Ancora oggi questo modo di teorizzare e di fare ricerca in psicoterapia è unico e lo condividiamo tutti: noi ci spostiamo dalla logica dell’analisi di ciò che non funziona alla logica del guardare a ciò che funziona, compiendo un cambiamento rivoluzionario da un punto di vista epistemologico. Infatti, guardare a ciò che un individuo fa come la migliore soluzione possibile è l’opposto di guardare a ciò che fa in termini di coerenza con un “dovere essere” considerato universale.

I Fondatori hanno scritto: «Quest’opera concentra la propria attenzione su una serie di fondamentali dicotomie nevrotiche della teoria, tentando di interpretarle, fino a raggiungere una teoria del sé e della sua azione creativa. Prendiamo le mosse dai problemi della percezione primaria e della realtà, per passare poi a considerare lo sviluppo umano e il linguaggio, e poi i problemi della società, della moralità e della personalità» (Perls et al., 1994, p. 51). Il metodo che usarono per indagare la realtà e le risposte alle quali giunsero sono coerenti con questo principio fondamentale di stare con ciò che funziona e che si evolve, con ciò che è, piuttosto che cadere nella trappola della categorizzazione della realtà stabilendo ciò che dovrebbe o non dovrebbe essere. Goodman si appellò ad una massima aristotelica quando affermò che: “Lo standard di valutazione emerge nell’atto stesso, ed è, infine, l’atto stesso nella sua interezza” (Perls et al., 1994, p.66).

Leggendo le risposte dei colleghi, mi è chiaro che questi principi sono condivisi da tutti. Un’altra condivisione è la nostra idea che la vita può essere osservata solo al confine di contatto, nell’esperienza dell’entrare in – e del ritrarsi dal – contatto con l’ambiente.

Ci sono alcuni principi fondamentali del nostro approccio su cui a mio avviso concordiamo. Alcuni di essi sono:

a) il campo organismo/ambiente, inteso come la situazione in cui l’esperienza totale del sé-in-contatto accade;

b) il , inteso come il farsi del contatto al confine tra organismo e ambiente;

c) l’esperienza di contatto-ritiro dal contatto, ossia il processo in cui accade sia la definizione di sé e la differenziazione dal non sé che la co-creazione dell’esperienza del contatto;

d) le interruzioni della spontaneità del funzionamento del sé, ossia il modo in cui si perde la spontaneità del processo di contatto, che viene caricato di ansia;

e) lo scopo della psicoterapia. La particolarità etica e metodologica del nostro approccio si concentra sul ripristino della spontaneità con cui il sé contatta l’ambiente.

A questa mission degli psicoterapeuti della Gestalt si lega il concetto di ansia, che è alla base della teoria della psicopatologia nel nostro approccio. La definizione che diamo di “ansia” è infatti “eccitazione senza il sostegno dell’ossigeno”. Il concetto di eccitazione è per noi l’equivalente fisiologico del concetto fenomenologico di “intenzionalità”. Quando parliamo di “intenzionalità di contatto”consideriamo anche la forza fisiologica “aggressiva” che accompagna l’andare verso l’altro (dal latino ad-gradi). Ho parlato di questo concetto in un libro sul setting (Spagnuolo Lobb, 2009d) nelle varie psicoterapie e anche in riviste internazionali (Spagnuolo Lobb, 2009a; 2009b). Penso che sia un concetto così diverso che vale la pena approfondirlo con ricerche e applicazioni cliniche.

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