Il Teatro Trasformatore

da Antonio Ferrara
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Pubblicato in: IAT News – Istituto Analisi Transazionale – (Roma) Febbraio 2012 – n. 5.

 

“Interpretare un ruolo e poi trasformarlo in un altro per arrivare ad interpretare se stessi: la potenza del Teatro Trasformatore”.

 

Il Copione è una storia scritta per essere rappresentata in teatro, ma anche, com’è noto, un programma che si articola e sviluppa nello svolgersi di una vita reale. Il Copione di vita non è scritto a priori. Si forma nel tempo, sia come frutto di esperienze effettivamente vissute, che di fattori che precedono lo stesso concepimento. L’insieme di più elementi e di molteplici stimoli si organizza in un progetto unitario che caratterizza ciascun individuo. E’ difficile che una teoria possa dar conto della complessità dei fenomeni che partecipano a dar forma e a sostenere nel tempo la vita di un uomo.

Berne ebbe questa capacità e tradusse le sue geniali intuizioni in sistemi operativi molto concreti, che ci permettono di comprendere le realtà visibili e quelle più nascoste del funzionamento umano, per alimentarne il potenziale e trattarne le disfunzionalità. Nel teatro, riflesso della realtà, le storie sono rappresentate da personaggi che hanno un proprio Copione e proprie maniere di stare al mondo. Usano un linguaggio e forme di espressione più enfatizzate e più creative, rispetto al parlare comune. Per questo producono maggiore ed immediato impatto sullo spettatore. Il coinvolgimento è forte, grazie al magnetismo che l’arte della recitazione e della messa in scena utilizzano per portare a sé chi guarda e ascolta. La base del teatro è dramma, azione. Occorrono potenza dialogica e vicende che prendano, trucchi e colpi di scena. Il dramma è conflitto. È saper toccare l’ ‘anima’ del pubblico. Una vita umana non è molto dissimile. È diluita nel tempo rispetto ad un’opera teatrale, gli avvenimenti sono distanziati e pur se le forme caratteriali delle persone e i loro Copioni sono sempre intuibili, i finali conseguenti possono arrivare dopo anni, quando neanche c’è più memoria di come la cosa incominciò. In ogni caso, sia che la vita venga intensamente vissuta, sia che venga lasciata scorrere scialba e monotona, sia che oscilli da una dimensione all’altra, così come nel teatro, il Copione ha un’origine. Un proprio protocollo, i cui nuclei più o meno lontani nel tempo si sviluppano, prendono forme definite, per poi assestarsi su schemi rigidi, che tendono a ripetersi, sempre uguali a se stessi, con poche e insignificanti varianti. Occorrono esperienze capaci di rompere gli equilibri precostituiti per dare una diversa direzione alle linee esistenziali così tracciate ed organizzate. I personaggi di un dramma teatrale hanno loro caratteristiche che gli attori, storicamente, tendevano a rappresentare seguendo dei modelli ispirati a stereotipi. Come dire che l’attore ‘indossava’ un ruolo, già noto, ne prendeva il costume e ne assumeva il comportamento. Si ispirava a specifici caratteri e recitando li rappresentava.

La rivoluzione del teatro di Max Reinhardt

Agli inizi del ‘900 nel teatro avvennero profondi cambiamenti. Tra i primi innovatori ci fu Max Reinhardt. Le sue proposte furono rivoluzionarie. Cambiò quei modelli ai quali il teatro si era da secoli ispirato. Reinhardt fu attore, regista, impresario. Alla sua scuola è l’attore come persona che entra nel personaggio. Non si adatta a quanto la tradizione propone, ma è lui, l’interprete, con i suoi modi, le sue emozioni, il suo sentire, che dà vita a Re Lear, all’innamorato romantico, al bancario, alla tata o a qualsiasi altro sia il ruolo che gli tocca. Lo rappresenta e di fatto, esprime se stesso, non segue uno stereotipo, lo fa a sua immagine. L’attore si ispira alla propria esperienza soggettiva, diventa personaggio.

F. Perls, il fondatore della Psicoterapia della Gestalt, seguì per molti anni attività teatrali ispirate alle concezioni di Reinhardt. Il teatro influenzò la sua visione terapeutica. Ricordo tra le tante la tecnica di identificazione nelle parti. Si porta se stessi nell’elemento di un sogno, di una persona reale, di un genitore, o di qualsivoglia oggetto, anche materiale. Lo si diventa, come un personaggio di teatro, ma le esperienze vissute sono le proprie. Mi identifico nell’acqua, nella luna e di fatto scopro aspetti di me, chi sono. Se divento la luna e dico: ‘Sono argentata, sono piena, indico la via al viandante …’, di fatto, tutto ciò che esprimo è un riflesso di me stesso. Se un’altra persona facesse lo stesso lavoro, emergerebbero altre cose. Ci sarebbero certamente delle espressioni simili, ma l’esperienza di ciascuno avrebbe comunque connotazioni e significati diversi. Diventando un personaggio, persona o oggetto che sia, emergono consapevolezze, stati emotivi e sensoriali, e si riconoscono propri comportamenti. In fondo sto facendo teatro, ma è ancora un monologo. Il teatro in senso pieno è dramma, azione, prevede la presenza di almeno due attori dialoganti. Riflette la vita ed è capace di attivare sottili interazioni. Durante una rappresentazione gli spettatori, nonostante il loro silenzio, inviano messaggi. E l’attore li riceve. Il suo è un ascolto impercettibile, profondo. Tra attori e pubblico si instaura una relazione che influenza i personaggi stessi, o meglio le persone che in quei momenti li rappresentano. Questo fenomeno trova un impiego particolare nel teatro di Reinhardt. Nelle sue opere lo spazio scenico si amplia, coinvolgendo gli spettatori in un rituale comunitario. Reinhardt vuole che il teatro abbia un forte spirito aggregante, capace di rinforzare l’identità sociale. Così come insiemi di persone opportunamente stimolate danno vita a una cultura gruppale, lo stesso fenomeno si può attivare in una platea di spettatori. Per altro verso, poiché come già detto, ci sono scambi sottili tra pubblico e attori, pur se piccole, di volta in volta ci saranno delle sfumature diverse anche nel ruolo recitato. La vita è come il teatro. Anche il terapeuta viene sollecitato da quanto passa nel silenzio del paziente, dai suoi non detti, dai vissuti che non trovano espressione.

La mia interpretazione: il Teatro Trasformatore

Nel mio Teatro, c’è sempre un pubblico e sono gli stessi partecipanti. A turno, alcuni recitano e altri fanno da spettatori. Serve il loro ascolto. Ho chiamato il mio teatro, Trasformatore. Chiaro cerco il cambiamento. Mi piace che chi si mette in gioco in un lavoro di questo tipo, apprenda qualcosa su di sé. E non solo. Incoraggio la persona a scoprire che già durante l’esperienza, recitando, può concretamente, proprio in quel momento, sperimentare nuovi modi di fare, di sentire ed agire, mettendo in evidenza ed esprimendo aspetti e modi di essere che abitualmente non manifesta, perché repressi o sconosciuti, a volte proibiti, a volte mai appresi. Organizzo scene di teatro utilizzando tecniche teatrali.

La rappresentazione è gestita dagli stessi componenti del gruppo di lavoro, i quali seguono delle linee guida che io propongo. In una seconda fase intervengo più direttamente e trasformo i personaggi che hanno messo in scena. Per quanto gli attori siano stati creativi e anche teatralmente efficaci, per quanto abbiano rischiato, i Copioni abituali, pur se mascherati dal ruolo interpretato, sono sempre presenti. Anzi, appaiono più evidenti che in una comune terapia. I modi del teatro producono una certa trasparenza e la persona, anche senza volerlo, più facilmente si svela. Il più delle volte chi rappresenta il personaggio è poco o per niente consapevole che quello che ha mostrato, è proprio la maniera in cui porta avanti la sua vita. E per quanto il ruolo che recita gli possa apparire estraneo, in quel ruolo comunque mette se stesso. Sono il carattere e la struttura di Copione, che nel carattere si manifesta, a dirigere e guidare il comportamento. Con il termine carattere ci riferiamo alle parti dure della personalità, a maschere che è difficile rompere. In esse si riflette la propria identità, quella che riteniamo sia la nostra natura. Carattere è un termine che fu utilizzato nel teatro proprio per indicare dei prototipi di personalità che seguono forme specifiche. I caratteri della Commedia dell’Arte, ad esempio, hanno un loro costume, un loro modo di parlare e comportamenti tipici. Pantalone, Arlecchino, Colombina, seguono le loro maniere di essere e agire, sempre. Pantalone è avaro, ma accanto a questa qualificazione ce ne sono altre, è anche brontolone, centrato su di sé, corteggia le giovani donne e così via. Arlecchino è furbo, ottiene quello che vuole giocando di astuzia, si arrangia nella vita e pur se prende botte, alla fine casca sempre in piedi, mentre Colombina è la servetta astuta e civettuola, che, corteggiata dal padrone, fa soffrire il povero Arlecchino. Come per le maschere della commedia, le forme degli esseri umani tendono a standardizzarsi in diverse tipologie. Anche se non così fortemente caratterizzate, senza particolari travestimenti, fuori da ogni simbologia teatrale, nel mondo si aggirano 27 tipi umani, portatori di tratti stereotipati e ripetitivi. A ciascun tipo, o carattere, corrisponde una struttura di Copione. Sono molteplici le qualifiche di ciascuna delle tipologie, che permettono di approfondire la conoscenza della personalità. Si parla di forme cognitive irrigidite, di fissazioni, diverse per ogni tipo. In pratica idee irrazionali che tracciano le linee guida dell’organizzazione copionale. E anche di passioni, maniere distorte ed esagerate di guardare alla realtà in termini emozionali.

La nascita della Psicologia degli Enneatipi

Tutto questo patrimonio, frutto di una ricerca che va avanti da anni che ha dato vita alla Psicologia degli Enneatipi, porta ad una articolata possibilità di conoscere i modi della recita, i ruoli rappresentati, come appartenenti alla persona, al di là del teatro. Ovviamente questi strumenti vengono utilizzati per un percorso terapeutico o di crescita personale. Nel Teatro Trasformatore, prendono una forma più immediata e diretta. Il primo passo è quello di apprendere come si è, scoprire aspetti che abitualmente non vengono osservati e assumerne coscienza e consapevolezza. Il risuonatore teatro sostiene il processo e amplifica l’esperienza. La rende più drammatica e gli spettatori, con i loro vissuti, prima silenziosi e poi anche espressi, fanno accrescere l’impatto con ciò che si incontra. È importante riconoscere ed esprimere emozioni, e che siano congruenti. L’attore deve sapere come manifestarle per trasmetterle al pubblico. Altrimenti il messaggio non arriva. È ovvio che nella vita abbiamo la stessa necessità. Se le emozioni che sentiamo non sono adeguate, inseguiamo invano risultati che non arrivano. Teatro e psicologia vanno insieme.

Nel mio lavoro propongo esercizi specifici per contattarle e riconoscerle. A volte modello la postura, l’espressione del volto, suggerisco un gesto o induco pensieri che possano evocare lo stato emotivo che richiedo. È chiaro, quando c’è difficoltà, ci sono dei no, dei divieti. Sono dei no antichi. In questi casi, al fine di spianare la via, propongo esercizi rivolti ad attenuare il divieto o aggiro l’ostacolo utilizzando trucchi teatrali. Mi piace richiamare, a fronte delle stereotipie copionali, e di carattere, la metafora della marionetta. La vecchia marionetta dei burattinai è guidata da fili, è fatta di legno, dura, rigida. Non si muove se non manovrata e i suoi movimenti sono limitati, vanno per linee, mai sono rotondi. Senza qualcuno che la muove è ferma, si affloscia al suolo, inerte. Dipende da chi se ne occupa e non può avere alcuna iniziativa, per quanto piccola possa essere. La marionetta è romantica, stimola l’immaginario dei bambini e commuove gli adulti. Evoca una certa malinconia, con il suo impaccio e l’espressione fissa. Per umanizzare la marionetta e farla uscire dal suo piccolo repertorio di gesti e azioni, serve un atto creativo. È la vita che lo chiede. E allora non servono molta analisi o teorie. Occorre un contatto profondo con chi si è appena espresso e mettersi in gioco con lui o lei, per scoprire insieme qualcosa di nuovo. Ora serve seguire l’intuito e i propri sentimenti, le proprie fantasie, e io, attore e regista, entro in relazione con la persona, cerco di intuirne il mondo interno e mi affido all’ispirazione, ora interviene l’arte, la creatività. Sconvolgo gli assetti stabilizzati, seguo impulsi e medio con la ragione, pensando a cosa serve. Guido i suoi movimenti, propongo emozioni e come provarle. Indico modi per esprimerle, suggerisco parole, come parlare. I compagni, l’intera compagnia di teatro partecipa. Prestano cose del loro abbigliamento, aiutano a truccare e a creare anche con l’immagine il personaggio. Ora è teatro, si vive l’intensità del teatro, diventa un rituale. Esce un nuovo personaggio, costruito al momento. Frutto di un’improvvisazione. L’attore così rinnovato sperimenta altro. Non è più una marionetta è una persona viva. Può piangere, ridere, soffrire come un malato terminale di cancro, come una cieca che si aggira smarrita nella vita, o godere di una sensorialità mai sperimentata. Ora è una persona vera. Ogni scena è sottolineata dall’applauso del pubblico e gli attori se ne riempiono. Gli attori vivono per l’applauso. Il teatro è applauso, riconoscimento. Ogni volta che faccio questo lavoro mi meraviglio di quanto potente sia l’impatto che crea nelle persone. C’è una sorta di magia nel fenomeno teatrale. Di fatto nasce dal Ditirambo nell’antica Grecia che inizia come espressione sacra, ad una voce, e poi diventa dialogo e quindi dramma. Calcare il palcoscenico, il sipario che si alza, il pubblico, il silenzio, e le energie invisibili che si muovono, creano una complessa atmosfera che incide fortemente nell’esperienza dell’attore consapevole. E avvengono cambiamenti nelle persone che anche dopo anni mi raccontano degli effetti trasformatori vissuti nell’esperienza fatta.

Riporto a titolo di esempio la sintesi commentata di un lavoro effettuato in occasione di un seminario di Teatro Trasformatore. La scena è stata rappresentata da due partecipanti, un uomo e una donna. Il personaggio maschile, secondo la Psicologia degli Enneatipi si è rivelato essere un tipo astuto-goloso. Come tale tende a nascondere a se stesso tutto quanto gli provocherebbe dolore o senso di mancanza e si illude di rendere più facile la propria esistenza, attraverso la ricerca costante di quanto di piacevole offre la vita. La scena originaria si articola in un lungo dialogo su come organizzare al meglio la cena di Natale. Lui cercando di trovare le soluzioni più gradevoli e soddisfacenti e la moglie quelle meno grandiose, più pratiche, nelle quali si possa sentire coinvolta nel fare in prima persona. Nella trasformazione il goloso-astuto viene invitato a sperimentare la deprivazione che lo porterebbe a vivere il dolore, frutto delle sue carenze, non solo materiali, ma anche affettive, che abitualmente copre riempiendosi la vita di sogni, fantasie e cose buone. Ne faccio un vagabondo buttato per strada, ridotto a chiedere l’elemosina. Tra le tante cose che dice, scansato e rifiutato da passanti che non gli danno nulla, impersonati da alcuni partecipanti al gruppo di lavoro, vive frustrazione e una sottile sofferenza, emozione sempre evitata: ‘Non avrei mai pensato che mi potessero negare aiuto … un pochino di danaro … da mangiare … per favore, solo un po’. E poi, cambiando tono, ‘maledizione (batte il pugno in terra), neanche qualcosa da mangiare’. Sembra impossibile. Infine si sente perso, smarrito: ‘Un idiota’. Nella finzione teatrale perde i suoi riferimenti e nei commenti successivi, si rende conto che nel teatro si è sentito una persona reale, e che abitualmente vive sopra le righe, in una continua menzogna con se stesso. La donna che appartiene ad una tipologia vanitosa, è presa dal suo attivismo e dal voler controllare ogni cosa. La trasformo in una malata terminale di cancro. È difficile stare in contatto con se stessa e il male la costringe ad ascoltarsi. Non ha un ‘fare’ con cui si possa distrarre e tuttavia vuole occuparsi di altro, del figlio che lascia, ad esempio. Le induco ancora qualcosa che la spinga a guardare in sé. ‘… Cos’è questa esperienza, cos’è morire … cosa è non essere più a questo mondo … tu non esisti più, il tuo corpo non esiste più … la tua testa non esiste più … ’ . Infine entra nel personaggio ‘ (piangendo), ‘non voglio andarmene … io non ho una fede’. E il marito: ‘Non posso fare niente, neanche pagare un medico … ’. Lei si sente persa, smarrita, buttata in un vuoto senza riferimenti. Vive per essere vista e se perde la sua immagine, sente di non esistere più. Si sono aperti ai loro lati più nascosti, ai segreti che tengono in piedi il dramma. Chiedo al pubblico di dare un titolo a questa storia. Alcuni dicono ‘Gli Abbandonati’, altri ‘Gli Idioti’. E poi commento: ‘Gli idioti … di ogni giorno … l’incapacità di amare … l’unica cosa che potrebbe aiutare in questa storia è un po’ di amore’, al di là dei ruoli.

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