Tradizione e innovazione in psicoterapia della Gestalt

da Antonio Ferrara
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Pubblicato in: Le Voci della Gestalt, a cura di Antonio Ferrara e Margherita Spagnuolo Lobb, Franco Angeli s.r.l. – Milano 2008.

 

“Al di là della relatività del vivere quotidiano, ci sono domande angoscianti sottese a ogni malessere o patologia: “Chi sono? … Qual è il mio destino?”. Quest’area dell’esperienza umana appartiene alla Gestalt”.

 

 

Introduzione

Le cose che andrò dicendo sono funzionali a presentare la linea di lavoro di una scuola di Gestalt che si occupa anche di struttura e si arricchisce di una teoria della personalità, sviluppata a partire dalla psicologia degli enneatipi e da una visione di tipo spirituale che ne costituisce parte integrante. Il modello si ispira all’insegnamento di Claudio Naranjo e all’esperienza fatta nei programmi internazionali SAT, nei quali da anni collaboro. Ma non solo. Nella mia Gestalt un grande contributo viene dalle geniali intuizioni di E. Berne e da quegli analisti transazionali che, a partire da lui, elaborarono una complessa e articolata teoria dello script, il copione di vita. Ritengo che fin dalle prime intuizioni di F. Perls, i principi ispiratori della psicoterapia della Gestalt, sia che provenissero dall’omonima psicologia, sia dalla fenomenologia o dalle filosofie esistenziali, si poggiarono sulla visione per la quale la sofferenza umana è essenzialmente conseguenza di una mancanza d’essere. Ossia di una perdita di contatto con la propria interiorità, che pur non avendo esistenza concreta tuttavia c’è, ed esiste come essenza.

Il movimento gestaltico non fu soltanto psicologico, propose una concezione dell’uomo ed entrò nella cultura di un’epoca. Come tale lo conobbi quando partecipai ai miei primi gruppi. Ci arrivai per curiosità e continuai a frequentarli trattenuto dal desiderio di conoscenza. Le esperienze che facevo mi aprivano orizzonti inesplorati e mi davano entusiasmo tanto che, già maturo negli ami, lasciai il mio lavoro e diventai terapeuta. Avevo incominciato l’esperienza gestaltica con Barrie Simmons e continuai ad apprendere, in seguito, ancora con lui. Fu il mio primo maestro. Il suo modo di essere, l’intensità appassionata, la cultura e la grande umanità, mi offrirono il modello. Appresi soprattutto dal suo fare, dalla terapia, nei gruppi in individuale e dalla supervisione che ricevetti. Poi ne vennero altri di maestri e anche percorsi più strutturati con l’analisi transazionale. Alla facoltà di psicologia studiai libri e libri. Mai un cenno a F. Perls o a E. Berne. È chiaro, l’accademia è conservativa. Tuttavia fu proprio all’università, scrivendo la mia tesi di laurea, che mi avvicinai ai principi della Gestalt e ne colsi la portata innovativa. E quando incontrai C. Naranjo compresi ancora più profondamente i significati e la vastità delle implicazioni della psicoterapia della Gestalt. Diventava una via di conoscenza.

Ho ascoltato negli anni con molto interesse, affascinato, i racconti di Claudio sulla vita di Perls, sulla sua figura carismatica, amata e rifiutata, simbolo della controcultura degli anni Sessanta negli Stati Uniti. E anche le esperienze di Claudio stesso, i suoi incontri, le sue scoperte, i maestri che ebbe e le avventure del suo viaggio mai interrotto di ricercatore di conoscenza. Al contrario, leggendo e un po’ incontrando i rappresentanti dell’altra Gestalt, quelli che da Perls si erano allontanati, non mi sentii affatto stimolato. Ciò che proponevano non mi coinvolgeva. Pur avendoci provato a saperne di più e pur avendo cercato di trovare un qualche supporto all’assioma che solo sulle basi della teoria del sé e delle conseguenti implicazioni sul contatto si può parlare di “vera” Gestalt, non me ne convinsi. Trovai più volte negli interlocutori un integralismo che non mi sembrava potesse coincidere con lo spirito della Gestalt proposta da F. Perls, prima, e da Naranjo, poi. La comprensione del proprio essere al mondo non può seguire le linee fisse di schemi teorici rigidamente definiti. Una persona è molto di più. Ho ulteriormente confermato le mie posizioni durante il Congresso Internazionale di Napoli, che io stesso ho voluto e poi organizzato insieme a M. Spagnuolo Lobb. In quell’occasione per la prima volta le due Gestalt ebbero un confronto diretto, culminato nel dialogo aperto, serrato, tra Claudio Naranjo e Dan Bloom. Questo libro raccoglie una piccola parte dei contributi che furono proposti da un gran numero di partecipanti. Nelle pagine che seguono propongo la mia sintesi personale di un modello integrativo e metto in evidenza alcuni principi della Gestalt già presenti, anche se appena accennati, nel primo Perls, quello che ancora psicoanalista scriveva L’Io, la fame e l’aggressività. Sono principi che in seguito furono tradotti in prassi operativa dallo stesso Perls e arricchiti di significato nell’appassionata riscrittura di Claudio Naranjo.

Lascio sullo sfondo la teoria del sé, che a mio parere da sola non permette di comprendere e trattare la complessità delle vicende umane e della quale tuttavia si è sempre molto parlato. È noto che la teoria del contatto fu elaborata dallo stesso Perls che in seguito se ne distaccò. Negli ultimi anni di vita, quando la genialità si incontrò con la saggezza e quindi, finalmente pacificato, poté cogliere con esperienza più diretta il senso stesso dell’esistere, ebbe bisogno di altro. Le teorie si svuotano di significato a fronte di un reale, effettivo contatto con la natura dell’essere. Subentra un’altra forma di conoscenza e questa usa linguaggi che non parlano di… ma in sé già sono. Alcuni degli eredi di P. Goodman, che da appunti ricevuti dallo stesso Perls e per suo incarico formulò una teoria che fosse accademicamente accettabile, ne hanno fatto un vessillo e negano autenticità di gestaltista a quanti non si inchinino a essa. Nessuno può negare che l’esperienza umana si svolga anche attraverso fasi di contatto, con momenti di avvicinamento, culmine e ritiro. Ma questo non vale sempre e per ogni cosa. È limitante voler fondare sulla sola teoria del sé quello che la Gestalt di F. Perls propone e Naranjo sviluppa e traduce in pratica effettiva: una terapia con una specifica visione dell’uomo. Il contatto, con le sue fasi e le sue interruzioni, spiega in che modo si sviluppa e viene impedito il processo di soddisfazione dei bisogni e suggerisce qualcosa sulla relazione interpersonale, ma non permette, per esempio, una comprensione sul come si organizzino e si cristallizzino le strutture fisse della personalità, né una loro lettura che abbia significato. E inoltre, sulla base della teoria del sé e della connessa concezione tripartita è difficile trattare i temi della crescita e dello sviluppo degli individui e dei gruppi. E ancora, al di là della relatività del vivere quotidiano, ci sono domande angoscianti sottese, a ogni malessere o patologia: “Chi sono?… Qual è il mio destino?”. Quest’area dell’esperienza umana appartiene alla Gestalt, che a questo scopo ha di fatto integrato nella prassi terapeutica conoscenze provenienti da altre tradizioni che si occupano dell’esistere e della mente sottile.

 

Atteggiamento e modi d’essere

Ciò che caratterizza la psicoterapia della Gestalt non è tanto la forma teorica ma l’attenzione che mette sul terapeuta, al suo modo di essere, e sui frutti ai quali tende il processo terapeutico. Secondo C. Naranjo la Gestalt propone soprattutto un atteggiamento e un insieme di principi che formarono una coerente rete concettuale. Il gestaltista, sia esso il terapeuta, il supervisore, l’educatore o il paziente stesso è portato ad assumere un modo d’essere. In pratica si diventa terapeuta essendo una persona con certe qualità. In questo senso la Gestalt è più che una teoria. Certo, è anche questo, ma la teoria va integrata in una visione dell’uomo che sia traducibile in una prassi operativa mirata all’attivazione di un processo di crescita. La vera antitesi al malessere è lo sviluppo della persona, il processo terapeutico comprende l’analisi psicologica e il trattamento comportamentale e va oltre. Ciò che sembrerebbe togliere dignità e cioè l’assenza di una teoria concettualmente ben costruita, non solo non diminuisce ma, a mio parere, esalta il valore di un modello terapeutico effettivamente fenomenologico, che si fonda sull’esperienza vissuta. La Gestalt resta viva perché mantiene la freschezza che proviene dall’interesse per ciò che accade e quindi per l’individuo così com’è, calato nella sua esistenza reale. E questo richiede una figura di terapeuta non solo competente ma anche impegnato in una continua ricerca di sé, un terapeuta che mette al centro dei suoi interessi il conoscersi. Una teoria fondata sulla metafora di un organismo che si orienta, si sviluppa, va avanti o si interrompe e dopo contatti pieni si ritira o si estingue, che definisce il sé come fenomeno di confine e su queste basi ne concepisce l’esistenza o la, non esistenza, va bene ed è stimolante per certi aspetti. Ma non basta, c’è altro. La Gestalt delle origini, quella del primo Perls, si ispirò, tra  altro, a Friedlaender, forse l’unico maestro al quale Perls dette il suo pieno riconoscimento, come ricorda Naranjo. E l’indifferenza creativa fu un punto centrale. La terapia mira al recupero della saggezza naturale, alla quale sono connessi il mondo degli istinti e degli impulsi, motori dell’esistenza, dotati di intelligenza arcaica sebbene inconscia. La saggezza non si avvale solo di astratta spiritualità, diamo spazio alla saggezza del corpo, alla fisicità e ai sensi tutti. All’apollineo si associa il dionisiaco. Nella visione di C. Naranjo entrambe le forme vanno accreditate. Quanto del mondo esterno è stato passivamente incorporato va rivisitato e reintegrato in forme attualizzate, coerenti con le necessità effettive del paziente, uomo e donna dell’oggi.

Questa visione che E. Berne propone attraverso una teoria strutturata, fondata sugli stati dell’Io, Perls la promuove invitando a essere come si è, seguendo la propria naturalezza. È un tornare a casa, all’interiorità. L’invito è a togliere le maschere e a recuperare le parti rinnegate di sé. È l’accettazione del limite, infine, che pacifica la mente. L’impegno ad essere diverso paradossalmente blocca il cambiamento. Non riceverò l’amore tentando di essere perfetto, né pretendendone di più, come alcuni caratteri spingono a fare. La meta è quella di lasciar fluire la coscienza e l’azione conseguente, in un continuo consapevole. Ma ci vuole molta esperienza e pratica del sottile. Al contrario, nella realtà quotidiana i processi si interrompono e le esperienze si irrigidiscono strutturandosi. Il fenomeno è funzionale all’istinto di conservazione e quindi alla sopravvivenza e, allo stesso tempo, allontana dalla naturalezza dell’essere. L’uomo che si adatta si separa dall’autenticità dell’esperienza rendendola altro da sé. Di fatto viviamo in una continua alternanza tra processo e struttura. Stando nel processo l’esistenza è nel divenire. Con la struttura si cercano stabilità e certezza di appoggio, e i vantaggi della ripetibilità. Nella concezione di Goodman (Perls, Hefferline e Goodman, 1971) è proprio il fattore che dà il senso dell’esserci, il sé, che perde la sua natura processuale. Il sé viene considerato come fenomeno che si manifesta al confine del contatto, una pelle, e così reificato esiste solo in momenti specifici. È una concezione riduttiva. Il sé non ha esistenza concreta, non è una cosa. In una concezione di tipo esistenziale e fenomenologica, sarebbe forse più coerente parlarne in termini di “essere” o di “essenza”, presente quindi con continuità, anche quando non si manifesta.

L’esperienza nasce dal nulla, dal vuoto, quello stesso vuoto che si può cogliere negli intervalli del continuo di consapevolezza, attimi di non esperienza nei quali è però possibile incontrare uno stato di presenza lucida o di offuscamento prodotto da distrazione difensiva. Portando avanti le prime intuizioni di Perls sul vuoto, il senso di essere non si sperimenta solo al confine del contatto. La consapevolezza dell’essere non è solo effetto di percezione sensoriale. C’è differenza tra quanto esperiscono i sensi, che permettono la relazione con l’ambiente, e le esperienze sottili della mente che si evidenziano nel coesistere di vuoto ed esperienza. Finché trattiamo con il sé che si oggettiva senza considerare la sua natura, non diamo significato a quanto, di invisibile, permea l’esistenza. Finiamo con il guardare il paziente a livello sintomatico e lavoriamo per cambiamenti mirati a obiettivi specifici e per integrarlo nella società. A un livello più elevato però, in Gestalt, cerchiamo la saggezza intrinseca. Questo è l’aspetto più caratterizzante. Possiamo arrivare al vuoto, al vuoto fertile, e da quel vuoto costruire la nuova realtà, che comunque è provvisoria e come tale destinata a ritornare al vuoto e in esso reintegrarsi. Questa è la meta finale: comprendere che quel vuoto è uno stato della mente senza oggetto. Il vuoto riconduce all’unità senza conflitto e pacifica la mente. Nel vuoto c’è integrazione. Non è una mancanza ma una pienezza d’essere. Non si pone il problema della scelta quando le polarità diventano una. La cura a questi livelli passa per strade semplici e allo stesso tempo più complesse. Rilassare la mente è più complicato che rilassare il corpo. Per comprendere il senso del “lasciare la presa” a favore dell’autoregolazione organismica e quindi l’abbandonarsi al fluire delle esperienze, seguendo la saggezza naturale, occorre una concezione nella quale il sé, o meglio l’essere, si esprima anche attraverso stati di coscienza che si manifestano a livelli più sottili, dove l’essere c’è, anche senza contatti. Nella filosofia buddista, che influenzò un gran numero di gestaltisti, l’esperienza nasce dal vuoto. Ripeto, il vuoto non è mancanza d’essere, anzi è la matrice stessa di tutte le esperienze, che si permeano di vuoto. La Gestalt che si evolve propone una sua specifica teoria del cambiamento, che oltre a essere mirato al sintomo o alla gestione della quotidianità, ha come obiettivo ultimo quello di favorire l’avvicinamento e il recupero della propria natura più profonda. L’attaccamento cede il passo all’accettazione che semplifica la vita.

 

L’esperienza e la saggezza naturale

Al di là dei concetti sperimentare è la nostra guida. Dall’esperienza traiamo conoscenze e attraverso l’intelletto le traduciamo in principi guida che si trasformano poi in prassi operative che producono azioni concrete. Vogliamo che cambino lo stato della mente e il comportamento. Comprendere non è sufficiente. Occorre passare all’azione. L’esperimento permette di valutare cosa sia realizzabile. Paure, rabbie e dolori arcaici sono sostenuti da credenze irrazionali e da ignoranza. Come tali creano barriere dietro le quali nascondono lo sconosciuto. La porta di accesso al cambiamento prevede questo rischio: incontrare lo sconosciuto. Ma occorre disponibilità a sentire. La vitalità dei sensi e le emozioni naturali sono di per sé fonte di benessere e quando c’è repressione si attiva la sofferenza, segnale d’allarme che invia l’organismo che reclama per il sacrificio che sta subendo. Spesso il dolore è lo sconosciuto. Ci mascheriamo dietro i distinguo tra ciò che è bene e ciò che è male e perdiamo la spontaneità naturale, che viene negata dai devo di una cultura fondata su principi consolidati nel tempo che hanno perso le loro matrici e gli scopi originari, e sono solo rivolti a conservare la stabilità del potere di parti, della personalità su altre parti che a scopo difensivo rinunciano alla spontaneità del sentire e all’espressione del desiderio. Sono principi che finiscono per permeare l’intera educazione, e non solo gli individui e le famiglie, ma tutti gli organismi, quindi la società, ne sono condizionati. È evidente che tra i mali del mondo c’è la sistematica repressione, di generazione  in generazione, di quello che E. Berne e gli analisti transazionali chiamano il bambino naturale, spontaneo e intimo, uno stato della coscienza che costituisce l’elemento vitale e la base dell’esistenza stessa, una funzione connessa alle matrici arcaiche della personalità. Il recupero dello stato naturale, legato al piacere e rivolto al benessere e alla soddisfazione, porta in primo piano un bisogno di libertà che risulta scomodo per una cultura basata sul controllo, che vuole incasellare il comportamento entro schemi prestabiliti. La rigidità dei Copioni culturali serve soprattutto a preservare lo status quo e alimenta la paura del diverso, retaggio incongruo di bisogni legati alla tutela della sopravvivenza e di sistemi di potere che infine finiscono per impedire l’esperienza creativa e la curiosità per il nuovo. Al di là dell’individuo è la cultura vigente che si fa portatrice di valori restrittivi che tendono a reprimere piuttosto che a favorire i potenziali. Così si produce malessere. Il bambino naturale fa paura e si perde di vista che possiede una saggezza naturalmente rivolta al bene.

 

Emozioni autentiche e parassitarie

La repressione coinvolge le emozioni e la Gestalt si fece paladina della loro espressione, a volte dandole forse troppo peso, a discapito degli aspetti cognitivi della mente. L’emozione è l’energia che permea l’esistenza, la qualifica, le dà vitalità e colore, ma quando perde naturalezza finisce con il deviare dalla sua funzione. Sono le emozioni autentiche quelle che muovono e quindi è necessario attivarle e restituire lo spazio preso da sentimenti sostitutivi che a favore dell’adattamento, hanno perso le qualità originarie e vengono utilizzati al posto di, in maniera meccanica e ripetitiva. Sono sentimenti inadeguati all’obiettivo, forme di manipolazione che hanno poco effetto relativamente ai bisogni e alle necessità reali, ma sono potenti nel mantenere stati di dipendenza e insoddisfazione. Fanita English (1971), parla di emozioni parassitarie per sottolineare l’inautenticità di sentimenti connessi a comportamenti di copione. Si pensi alla tristezza. È connessa a esperienze già vissute che appartengono al passato, recente o lontano. Può non esaurirsi e assumere forma caratteriale ripetitiva, ci siano o no effettivamente carenze, perdite o lutti. La tristezza manipolativa ha lo scopo di richiamare attenzione e affetto, ma per la sua inautenticità, al contrario, produce allontanamenti e rifiuti. L’emozione naturale porta a obiettivi congruenti. La paura è relazionata a qualcosa di incombente, un pericolo possibile, un che di minaccioso che fa prevedere danni. Quando è legata a esperienze del passato non aiuta, perché non esiste un vero pericolo e finisce per creare un incoerente stato d’allarme (Thomson, 1983).    F. Perls utilizza la potenzialità catartica implicita nell’espressione emozionale. Propone la spontaneità come fattore di cambiamento. L’invito della Gestalt è di portare alla luce il represso, lo sconosciuto, i luoghi dove si nasconde l’autentico, il livello al quale appartengono le emozioni naturali, cancellate dalla memoria o non apprese, quando l’ambiente le ignorò e al bambino mancò il modello.

La tecnica della drammatizzazione facilita il contatto. La rabbia più severa e il dolore più profondo se vissuti, si esauriscono e aprono la via a nuove esperienze. Il contatto è pieno, frutto dell’espressione, è l’antitesi ai meccanismi nevrotici che attraverso l’evitamento, cognitivamente indotto, effetto di una scelta originaria, impediscono che l’esperienza si esaurisca e creano la prigione della ripetitività. Così l’organismo si ingolfa e trattiene energie che diventano veleni. Un pensiero del tipo “se piango mi daranno attenzione” viene rinforzato quando il pianto trova la risposta sperata e poi con il tempo piangere, lamentarsi, diventa meccanica e improduttiva modalità relazionale. L’antidoto prevede una correzione cognitiva del pensiero di fondo, la scoperta dell’emozione naturale repressa e infine l’apprendimento della sua espressione. Siffatto intervento terapeutico, frutto di un modello integrativo, permette il naturale ritiro, conseguenza coerente di un contatto pienamente vissuto. La cura è attiva. Più sottilmente consiste in un mollare la presa da una realtà emozionale sostenuta da costruzioni mentali fittizie. Creazioni della mente, dunque, che in quanto tali è possibile dissolvere. Non sono più utili, anche se un tempo lo furono, e sono distruttive, anche se la distruttività è una conseguenza non voluta. La rabbia come risposta abituale alla frustrazione non risolve e la sua presenza costante e invasiva non permette la scoperta di vie più dirette ed efficaci per ottenere ciò che si vuole. Quando la persona si abbandona al fluire naturale dell’esperienza il processo non si interrompe, nessun attimo della nostra esistenza è ripetibile. Basta pensare, nessun evento può durare più del tempo che dura e quello di bloccare la mente in schemi ripetitivi, organizzati in forme emozionali sostenute da pensieri che le confermino, è un artificio basato su un’illusione, quella di garantirsi la sicurezza. Un tempo forse lo schema protettivo ebbe una sua validità. Ma oggi? Ci tocca rischiare, a volte azzerare e da lì ripartire.

 

L’elemento amoroso

Su altro versante è la proposta di coltivare l’aspetto amoroso. Una proposta che riempie di significato le tante teorie sulla carenza d’amore subita dal bambino che deprivato e senza pienezza di accudimento cresce male e mette le basi per sofferenze future. Non basta analizzare o rivivere le scene significative. Occorre apprendere l’amore. Ma non lo si trova negli elenchi degli strumenti di cura. Perls al contrario si apre al tema e traduce in pratica operativa l’io-tu di M. Buber. La Gestalt porta al centro del processo terapeutico la relazione, non solo quella patologica, già molti l’hanno trattata, a partire da Freud, con l’enfasi messa sulle relazioni transferali. Per lavorare con il transfert è necessario cogliere fissazioni copionali che portano a replicare ancora oggi esperienze relazionali del passato. Per attivare una relazione autentica invitiamo a cogliere nell’altro il tu e quando la persona è vista come tu, l’esperienza cambia, è come vedere l’altro per la prima volta, anche se già conosciuto. Emerge la pienezza del suo essere, il suo essere Ok, al di là di pregiudizi e apparenze che rendono il tu esso, come conseguenza di un contatto distratto da un passato che non finisce. Per il tu così guardato non si può che provare una profonda e incondizionata comprensione e più sottilmente amore. Un contatto da “essenza a essenza”, dice Naranjo. I pazienti e gli allievi si addestrano all’esperimento relazionale. È una via diretta per il benessere. La spontaneità nel rapporto con l’altro libera l’organismo da pressioni intollerabili, ma anche favorisce l’avvicinamento e l’esperienza di relazione in forme più libere rispetto a quelle prescritte dalle norme sociali, che in apparenza proteggono ma di fatto limitano contatti più profondi. C. Naranjo, ispirandosi alla quarta via e al lavoro di Gurdjieff va oltre, “siamo esseri tricerebrati”, e propone la teoria dei Tre amori che discende da quella dei tre cervelli e dalla conseguente organizzazione della triade padre, madre, figlio, portatori ciascuno di una specifica forma amorosa. L’uomo si completa attraverso l’integrazione delle tre vie. Quando la comunicazione diventa difficile è utile guardare alla struttura e quindi ai fenomeni di copione e agli stati dell’io arcaici ancora attivi nel transfert con il terapeuta e in senso più ampio nei contatti quotidiani. Particolare valore assume poi la comunicazione ulteriore che, come vedremo in seguito, va oltre le forme relazionali consapevoli e porta a conseguenze che possono essere fortemente distruttive.

 

Dal gioco psicologico alla relazione significativa

È particolarmente rilevante ai fini della terapia dei rapporti, quello che F. Perls chiamava il livello E. Berne: la teoria dei giochi psicologici con la sua prassi operativa. Il costume invalso tra gli analisti transazionali, e non solo, di evidenziare da ciò che si manifesta comportamenti che vengono etichettati con formule del tipo “giochi a stupido”, a “violenza carnale”, a “goffo pasticcione”, a “violenza carnale”, a “povero me”, a parte l’impatto confrontativo, dice poco sulla natura del meccanismo comunicazionale che il giocatore sta provocando e le conseguenze che ne possono derivare. Il gioco psicologico ha contenuti complessi e sono gli stessi che organizzano il copione di vita, quindi la struttura della personalità. Processo e contenuto sono le due facce dei fenomeni. Ciò che si manifesta non può essere avulso da quanto resta invisibile, esistono insieme. Se ne parliamo in termini di figura e sfondo il discorso è analogo. La figura è determinata dallo sfondo così come i contenuti copionali, le regole organizzative della personalità, determinano il comportamento mentre gli schemi interni restano inconsapevoli. Come per il copione che porta a finali prevedibili, congruenti con il percorso di vita, il gioco, fenomeno che può realizzarsi in tempi brevi o lunghi, conduce a finali che possono essere altamente drammatici. I giochi sono ripetitivi e tuttavia appaiono imprevisti, anche se già sperimentati. Immaginabili per chi osserva dall’esterno. Ciononostante si continua a giocare i propri giochi in maniera coatta e inconsapevole.

Perls e Berne, fondatori di due approcci con principi filosofici molto vicini, sono polari nei modi di pensare e di organizzare l’intervento terapeutico e proprio per questo integrabili. Perls predilige una pratica clinica che tende a disarticolare le strutture a partire da quanto si manifesta e propone soluzioni creative perché, alfine, emergano le potenzialità implicite. Berne studia la meccanica, la grammatica dei comportamenti e le regole sulle quali si fondano, per poi favorire la scoperta di alternative dettate dalla ragionevolezza che emerge dalle parti adulte e consapevoli della personalità. La fede di Perls è nel valore della preferenzialità, la saggezza naturale che guida attraverso la via del desiderio. Per Berne è prevalente la scelta e l’impegno per raggiungere l’obiettivo. Sono le due facce della medaglia che a mio avviso hanno permesso il reciproco interesse tra i due maestri, prima, e i loro discepoli, poi. Tornando al gioco, detto in sintesi, due persone che entrano in tale dinamica relazionale, danno vita a una comunicazione che inizialmente appare fluida e congruente, salvo che, dopo un certo numero di scambi, entrambe si trovano coinvolte, senza darsi conto di come sia avvenuto, in uno stato emozionale negativo. Sperimentano sentimenti inaspettati che producono malessere più o meno intenso. Il processo si attiva e si alimenta in maniera inconsapevole.

Uno dei due giocatori può iniziare, per esempio, chiedendo un consiglio. Ottiene la risposta, ma non è proprio quella che si aspettava e quindi ripete la domanda precisando “Ma quello che volevo…” e l’altro, solerte, gli dice: “Allora puoi…” e il primo di rimando: “Però quello che chiedevo…” ancora una volta chi risponde propone una nuova alternativa, fino a che con un vero colpo di scena, il primo interlocutore alterato nei toni e nell’espressione, sbotta: “E smettila di continuare a suggerirmi cose insignificanti”. Il tono della comunicazione è cambiato drasticamente, il “cerca consigli” è diventato aggressivo, insolente. L’altro ammutolisce, perde la voglia di rendersi utile ed emergono pensieri del tipo: “Sono un incapace… non ne faccio mai una buona”. Alla giovialità subentra la tristezza, mentre chi cercava aiuto si allontana un po’ deluso e un po’ soddisfatto, convinto che nessuno potrà mai dargli un vero sostegno. Se chiedete loro cosa è avvenuto e come mai c’è stato uno scambio di ruoli così drastico non hanno risposte chiare, ma entrambi diranno che si sono sentiti trascinare da qualcosa di incontrollabile, una forza interna  che li ha portati allo stato emotivo finale e a interrompere la comunicazione. Questo è il processo e tende a ripetersi ogni volta che si attivano stimoli copionali. È tipico del gioco che una volta messo in moto è difficile interromperlo. Bisogna andare al contenuto e trattare gli aspetti strutturali per guidare al cambiamento. All’inizio entrambi i giocatori mettono in atto una svalutazione. Nel nostro caso l’uno assume una posizione passiva e chiede aiuto, l’altro è spinto dal desiderio di rendersi utile. In pratica, la passività del primo giocatore comporta la rinuncia a cercare soluzioni usando le proprie capacità e più profondamente è un tentativo di stabilire rapporti di natura simbiotica. Prima ancora di provarci il “cerca consigli” chiede appoggio. Ma resta sempre insoddisfatto. Quindi non è il consiglio quello di cui ha bisogno. L’altro giocatore, quello che offre disponibilità, chiede in cambio riconoscimento, vuole che i suoi suggerimenti vengano apprezzati. Di fatto svaluta l’interlocutore e offre un aiuto apparente. Non è in contatto con quanto effettivamente la persona chiede e neanche con quanto lui stesso sta cercando, che resta inconsapevole. La comunicazione, dunque, avviene su due livelli. In superfice, c’è richiesta di aiuto e la risposta che viene è congruente, ma non soddisfa la richiesta più profonda che è quella che conta. Entrambi cercano conferme per convinzioni arcaiche che strutturano il loro modello esistenziale. Si tratta di nuclei cognitivi ai quali si associano emozioni parassitarie che sostituiscono quelle naturali e che non hanno la possibilità, in quanto inautentiche, di produrre gli effetti desiderati. Nel momento in cui il gioco arriva alla sua naturale conclusione sia le convinzioni sia le emozioni parassitarie emergono dallo sfondo, vengono manifestate e si confermano, dando vita a un circolo vizioso. La storia copionale si replica, sempre uguale a se stessa e il gioco è una delle sue manifestazioni a livello relazionale. Pur se gli effetti sono insoddisfacenti e le soluzioni spesso drammatiche, alla prossima occasione il gioco si ripeterà. Le ragioni per farlo sono molteplici e tutte, al fondo, hanno a che fare con una necessità biologica di garantirsi stimoli, non importa se negativi, e di avere spazio e tempo strutturati secondo modalità conosciute. Lo schema del gioco è estremamente rassicurante rispetto a possibili intimità e conseguenti rischi di perdita e di abbandono. Il paradosso è che per evitare un’eventuale sofferenza se ne accetta una apparentemente più tollerabile, ma cronicizzata nel tempo. L’io-tu è rischioso e quindi più difficile da perseguire. Ovviamente sarebbe la via più appagante.

 

L’integrazione

Il mondo delle emozioni e quello delle sensazioni è permeato di pensiero. I tre mondi sono inscindibili e interconnessi. Il cervello rettiliano, il più arcaico, è legato agli istinti, quello limbico è maggiormente connesso alle emozioni, la razionalità e la capacità di vivere coerentemente nel qui e ora, sono tipici dell’attività della neocorteccia. Quando il sistema uomo è equilibrato i tre cervelli lavorano insieme. Perls si contrappose, come altri del suo tempo, alla troppa concettualizzazione operata dalla psicoanalisi e mise in secondo piano l’aspetto cognitivo. Il capire prese forme più sottili. Parlò di awareness, consapevolezza, una comprensione che viene dal contatto diretto, non filtrato, con l’esperienza. Il paziente è capace di riconoscere sensazioni ed emozioni e di dar significati. Stimolato dal terapeuta è in grado di scoprire i suoi modi di essere e comportarsi. Diventa consapevole di cosa sta facendo della sua vita e a cosa effettivamente aspira. La consapevolezza aiuta a darsi conto delle disfunzioni cognitive strutturate in età precoce. Ciò che il bambino intende dei suoi vissuti e del mondo circostante può avere un che di irrazionale ed essere poco congruente con quanto effettivamente avviene e, a causa della sua poca esperienza, rischia di focalizzarsi su una comprensione limitata della realtà. Generalizza e ingrandisce la portata di quel che vive e crea un sistema di riferimento condizionato, frutto del suo stato di dipendenza. Apprende a muoversi entro uno schema ristretto. Ciò che gli accade e gli viene richiesto è spesso difficile da accettare, contrasta con la sua natura, ma si sottomette, anche se apparentemente si ribella.  Quella visione e quei pensieri se nel tempo non vengono aggiornati,  sono ancora attivi nella vita adulta e creano sofferenza. Occorre revisionare un modo di esistere complessivo ancora influenzato da modelli cognitivi ed emozionali prodotti in altra epoca e frutto di altra storia. Aiuta la modalità di lavoro regressivo, un trucco per trattare il qui e ora attraverso immagini che sembrano appartenere al passato. In questo caso l’analisi transazionale e la Gestalt lavorano insieme.

 

L’uomo unitario

La psicoterapia della Gestalt è 50% razionalità e 50% atteggiamento (Naranjo, 1991). Il principio di preferenzialità che segue la via dionisiaca, la spontaneità istintuale, si integra con quello apollineo, fatto di ragione e armonia. Perls lancia una sfida a favore della vitalità, del sentire pieno. Propone il “rischio” di vivere, sperimentare, affinché il corpo, la mente e l’energia emozionale non si inaridiscano sotto l’influenza di apprendimenti inculcati dall’esterno che senza elaborazioni personali diventano guide sterili, meccaniche e ripetitive. Lo fece a suo modo, in maniera intensa, permettendo che gli aspetti nevrotici convivessero con quella che negli ultimi anni della sua vita diventava sempre più una penetrante saggezza. Accettare la propria condizione, essere come si è, piuttosto che impegnarsi in uno sforzo per il cambiamento. Le tradizioni spirituali che venivano dall’oriente lo suggerivano. Perls lo fece, con i suoi limiti, le sue incongruenze e la sua chiarezza. La Gestalt di C. Naranjo raccolse il messaggio e quanto venne abbozzato dal maestro diventò nelle sue mani di terapeuta, studioso e ricercatore di conoscenza The One Quest (1972), l’unica via,  nella quale la psicoterapia, lo studio della personalità e dei modi come essa si organizza, si incontrano con la spiritualità. Naranjo chiarisce e dà spessore a quanto Perls propose implicitamente attraverso le sue intuizioni: la nevrosi e la spiritualità, la quotidianità e il mondo del sottile, possono convivere. Il destino dell’uomo è nella sua autorealizzazione, vertice dei bisogni nella piramide di Maslow. Ma bisogna intendersi, in una visione spirituale non basta apprendere a soddisfare bisogni e desideri o darsi un posto nel mondo. Per contrastare le pretese dell’ego, la personalità condizionata, e le sofferenze che produce, occorre dar spazio a esperienze più significative, occorre sperimentare la natura sottile della mente. Cambia dunque il tipo di uomo che vogliamo formare e anche l’educazione ha da svolgere la sua parte. La scuola ha bisogno di uscire dalle pastoie di criteri basati sulla produttività e l’affermazione personale, dalla meccanicità dell’apprendimento. È necessario favorire i valori umani, la comunicazione autentica e il diritto alla conoscenza e all’espressione dei propri stati affettivi. Non solo filosofia ma pratica effettiva. Quando gli insegnanti, gli allievi e le famiglie stesse sono autorizzati a sperimentare una comunicazione più aperta e la trasparenza diventa valore condiviso, le persone si sentono meno marziane nel farlo. Sono più propense a relazioni improntate alla spontaneità e all’intimità, fattore che E. Berne metteva alla base dell’autonomia, punto di arrivo di un processo di crescita. In questa proposta l’intervento terapeutico diventa più significativo, guarda all’uomo inserito nella società. L’uomo reale si manifesta attraverso le sue problematiche, attraverso la sofferenza prodotta dalla carenza d’amore, attraverso la follia di emozioni distruttive e ha la capacità di cogliere, al di là dell’ignoranza e delle illusioni, il senso del suo esistere. L’uomo è prigioniero di se stesso, del proprio mondo interno, costruito in funzione del sentirsi amato, del trovare appoggio e sicurezza. Ma aspira alla libertà. Ha dimenticato di vivere e troppo preso dal proteggersi è finito schiavo delle sue stesse costruzioni. La società è complice. Occorrono nuove scelte. Quelle per curare i sintomi, certo, le nevrosi contingenti, senza dubbio, ma soprattutto è necessario preparare il terreno per accedere a dimensioni più ampie, che aprano alla pacificazione della mente e del cuore e diano più spazio alle potenzialità amorose.

 

Il bambino represso

I bambini nascono principi o ranocchi? Berne rispose che nascono principi e principesse e poi diventano rane o ranocchi. T. Harris (1976), l’autore di Io sono Ok – Tu sei Ok, pensò invece che fosse il contrario. Credo che al dilemma sia difficile dare risposte definitive e forse sono vere entrambe le ipotesi. Ma a prescindere, un bambino è naturalmente spontaneo, istintivo, in contatto con i bisogni, e va naturalmente in direzione del piacere, cerca la felicità, il benessere, e soffre, per i divieti e gli impedimenti ambientali, ma anche per i limiti che gli dà la natura. Non li riconosce come tali e non li accetta. Crescendo si rende conto che sempre meno cose gli sono permesse e che a tante delle sue aspettative non riceve risposte, o sono insufficienti.

Certo, nel mondo c’è poco spazio per una crescita libera e per l’accoglienza amorosa che il bambino si aspetta. D’altra parte è pur vero che le attese sono spesso grandiose. La fame di stimoli, cioè di esperienza, che Berne considera un bisogno primario per sopravvivere, spesso diventa irragionevolmente grande, così come allo stesso tempo grande è la necessità di struttura. Senza confini e con tanta libertà il bambino si sentirebbe perso. Garantita la sopravvivenza vuole riconoscimento, vivo sì ma con valore. E l’amore lo vuole incondizionato. Sono tutte necessità primarie, vissute come essenziali per sopravvivere e crescere e forse per questo sentite in maniera estrema. È difficile trovare la misura. I genitori, spesso in buona fede, non sanno come rispondere a tanta aspettativa, forse non possono. Ma dov’è l’equilibrio? Mi convinco sempre più che non ve ne è uno. Le leggi della vita prevedono un impegno per crescere e questo passa anche attraverso lo sperimentare stati di carenza. Quando è troppo: “Il brodo di pollo è veleno” (Reisnich, 1983). La protezione eccessiva non produce autonomia e l’amore prevede anche frustrazione. Trovare l’equilibrio tra libertà e struttura è, in ogni caso, frutto di un apprendimento individuale. Le incorporazioni dei messaggi genitoriali e sociali, per avere senso, vanno rivisitate e sottoposte a un processo di aggiornamento. Si possono integrare solo se assimilate, assumendo valore di scoperte personali, altrimenti si depositano come fardelli, scorie che pesano nella memoria e sono storie che non esistono più. D’altro canto il nostro mondo è spaventato e quindi restrittivo rispetto all’affettività, la spontaneità e il piacere. Domina la repressione o, in direzione contraria, l’esagerazione ribelle. Le cose restano difficili se la società non abbassa i toni delle sue richieste.

Il bambino naturale è la parte più carente, e di molto, nelle diagnosi di stati dell’io (Dusay, 1972). Il bambino adattato e il genitore, critico o affettivo sono in genere dominanti. Nel bambino adattato rientra anche il ribelle che paradossalmente dipende mettendosi contro. La filosofia della Gestalt offrì un potente antidoto per esprimere e dar spazio ai potenziali repressi e dette un permesso fondamentale: “Essere come si è”. È un diritto avere desideri, vivere pienamente la propria vitalità fino a disobbedire al tiranno interno, il persecutore introiettato che crea vittime e sostiene la passività. Perché il bambino naturale riemerga e prenda spazio sono necessari un territorio favorevole, una protezione sufficiente e una ragionevolezza adulta, che sappia gestire questo patrimonio primordiale, perché, quando ritorna alla luce, può manifestarsi sregolato e senza limiti.

 

Principi e filosofia della Gestalt

La responsabilità

Siamo responsabili quando in grado di dare risposte congruenti agli stimoli (Naranjo, 1991), sia che vengano dall’ambiente sia dal mondo interno. La responsabilità non implica un atto di volontà e non è connessa con lo sforzo, né all’assumersi impegni al posto di altri che sembrano non farcela. Neanche ha a che fare con il sacrificio. Respondere comporta razionalità e il coraggio di scegliere. Lo sforzo e il sacrificio sono in genere a favore del super-io, non del risultato. Così si finisce per porre lo sforzo al centro, quasi diventa un obiettivo, un sostituto della meta. La responsabilità è frutto di uno stato della mente che attiva i potenziali e favorisce il raggiungimento degli obiettivi. L’impegno gratifica ed è possibile produrre e agire mantenendo il contatto con la spontaneità e la saggezza naturale. La mancanza di responsabilità alimenta gli stati passivi, le dipendenze e l’inadattamento. L’uomo si fa da sé, dice Heidegger (1976), attraverso le sue scelte e la teoria del copione di E. Berne si basa su principi che mettono al centro la capacità decisionale. Decidere comporta assumere responsabilità e nello stesso tempo darsi valore, ma anche uscire dal dubbio paralizzante che non approda a nulla e correre il rischio di seguire l’intuizione. È impossibile analizzare tutte le esperienze in tutti i loro dettagli, sono infiniti. Arriva il momento in cui occorre agire e serve una visione complessiva e quindi affidarsi all’intuizione. Nella Gestalt di F. Perls prendere responsabilità coincide con l’essere libero e con il seguire il flusso della vita. Sostanzialmente il suo è un invito all’autonomia e al coraggio di affrontare l’esistenza. Chi è responsabile risponde agli stimoli in maniera coerente con la realtà effettiva, piuttosto che attraverso schemi precostituiti che interrompono le risposte creative. A questo scopo occorrono sensi e coscienza aperti e un’intenzione calata nel presente.

 

Qui e ora e immagine di sé

Strettamente connessa con la responsabilità è la presenza nel qui e ora che comporta l’avere pieno contatto con quanto concretamente stiamo sperimentando. È a questo che siamo sollecitati a rispondere. I ricordi e le memorie, nutrimento indigesto per un gran numero di persone, legano al passato. Un passato che, è ovvio, non c’è più, ma la sua eco ancora risuona, ed è solo come metafora di una realtà attuale che lo possiamo trattare. Di qui la tecnica gestaltica che rivoluzionò il fare psicoanalitico. Traumi e situazioni incompiute possono essere rivissuti. Pensieri, emozioni e comportamenti, che appartengono ad altra epoca, se pienamente espressi in un nuovo contesto, perdono forza coattiva e rivisitati si aggiornano. L’orientamento al presente implica anche il diventare consapevoli della caducità dell’esistenza alla quale tanto fortemente ci leghiamo e del tempo che passa. Anche senza rendercene conto cambiamo di continuo. Il bambino che fummo non esiste più e neanche lo studente, il fidanzato, chi si sposò o ebbe il primo figlio. C’è una presenza, un quid che continua, ma giorno per giorno l’esistenza concreta è altro. Le vie della saggezza danno come presupposto, per la cessazione della sofferenza, la comprensione profonda che tutto ciò che viviamo è impermanente.

Non possiamo fermare i momenti del nostro vivere. Stare nel processo vuol dire mollare la presa e lasciare andare gli attaccamenti esasperati. Questo messaggio è implicito nel discorso gestaltico, anche quando ci occupiamo, più semplicemente, della soddisfazione dei bisogni. È necessario che un bisogno si esaurisca perché ne emerga un altro. Al contrario, quando si resta legati alle proprie esperienze, siano esse piacevoli o dolorose, ci si irrigidisce e si perde flessibilità. Ancor più disturbante è l’attaccamento alla propria immagine, al modello adottivo che ci siamo costruiti per difesa, per affrontare il mondo. Riteniamo che quel modello, inventato per convenienza, sia davvero “io”. Esistiamo e ci comportiamo come immagini, costruzioni della mente che da sistemi di adattamento si sono trasformati in una rassicurante identità nella quale ci riconosciamo. A volte è così profondo l’inganno che il perdere l’immagine fa precipitare in un vuoto angosciante. Un paziente in stato regressivo non si percepiva, aveva perso il senso di sé, non aveva più confini, non aveva un corpo, diceva. Descriveva la propria esperienza di perdita con una voce che non sembrava sua. “Sono una sostanza informe, lattiginosa…” e chiedeva aiuto, non era più, non riconosceva il suo essere. Aveva perso l’immagine ed era senza identità, come non esistesse. Riprese corpo ed esistenza definita da una forma quando la mano del terapeuta lo toccò. Fu come svegliarsi alla realtà e capì che non era più la stessa di prima. La difesa dell’immagine è primaria, dà il senso dell’esistenza.

Proprio ciò che coinvolge in un oscuramento generalizzato, l’immagine da offrire a se stesso e al mondo, apparentemente rassicura, mentre di fatto spegne le potenzialità creative rispetto a un più responsabile fluire con la vita. Il paziente viene chiamato a riconoscere il paradosso di un sistema difensivo che di fatto lo limita e lo reprime. Viene spinto a scoprire che il suo modo di vivere è frutto di scelte specifiche, operate in età lontana, che oggi non sono più adeguate. Nel qui e ora si acquista libertà. Si risponde agli stimoli effettivi che la vita offre e l’interazione diventa piena. Si sviluppano processi vitali ai quali succedono stati e condizioni che fanno sentire le persone appartenenti al mondo. La ricerca dell’essere è implicita nella concretezza della vita e non la si trova nel mondo delle astrazioni. La nevrosi viene dall’attaccamento a una realtà che non esiste più e dall’immaginazione di ciò che potrà essere. Ci sono persone con caratteri più rivolti al ricordo e altre che sono maggiormente proiettate sul cosa vogliono diventare. Quando è troppo, entrambe le tipologie perdono l’esperienza “piena” del presente, che non è guidata dal pensiero e tanto meno dalle valutazioni e dal giudizio.

 

La consapevolezza

Strettamente connessa ai principi precedentemente enunciati è la consapevolezza. Non c’è consapevolezza senza responsabilità e se manca la presenza nel qui e ora. Quando ne parliamo in Gestalt ci riferiamo sostanzialmente a una maniera di essere coscienti che include un modo di partecipare a ciò che accade e alle nostre azioni nel loro continuo divenire, essendo consapevoli di pensieri, emozioni e sensazioni, calati in ciò che viviamo, con attenzione focalizzata. Il primo nome che dette Perls alla futura Gestalt fu proprio terapia della focalizzazione (Perls, 1995), complementare allo scorrere della spontaneità che suggerisce il Tao (Watts 1960). La consapevolezza è connessa al comprendere e quindi alla conoscenza di sé, la funzione più elevata della mente, capace di dar significato alle esperienze vissute. Nella visione gestaltica quello della consapevolezza diventa un esercizio di autoapprendimento sul come funzioniamo, con un’apertura allo sconosciuto. L’intervento del terapeuta è molto poco attivo. Durante il Continuo sono possibili consapevolezze che danno spazio a quanto nella quotidianità viene tenuto nell’ombra, un presente sconosciuto che manifestandosi accresce le possibilità di integrare aspetti di sé divenuti estranei o poco presenti, per non aver ricevuto sufficiente attenzione. È una forma di lavoro più sofisticata rispetto alla libera associazione analitica. Il terapeuta offre soprattutto ascolto e guida con piccoli tocchi, giusto quanto serve per portare la consapevolezza nel suo fluire naturale, quando il paziente si interrompe o si perde nella distrazione evitante. Piuttosto che essere guidato verso mete determinate, il paziente apprende attraverso la sua stessa osservazione e il terapeuta interviene per sostenerlo e quando è in difficoltà. È la fiducia nelle capacità di risposta di chi gli chiede aiuto che guida il terapeuta nell’atteggiamento di non interferenza con il processo in atto. Il significato emerge dalla stessa esperienza e chi pratica lo coglie egli stesso, come spettatore ingenuo di ciò che si manifesta. Nelle interruzioni del Continuo si configurano momenti di vuoto mentale, spazi senza esperienza attimi nei quali l’espressione viene inibita. Il terapeuta può maneggiare i molteplici fenomeni che appaiono per ulteriori approfondimenti, nelle direzioni che ritiene più opportune, a volte favorendo il completamento del processo interrotto, altre invitando a una maggiore attenzione, altre ancora rassicurando, oppure investigando la natura degli evitamenti e le ragioni che li sostengono. Nel blocco del Continuo si celano le esperienze proibite da divieti esterni o autogenerati, esperienze represse o che non hanno possibilità di prender forma. “Non è bene esprimere i tuoi bisogni”, “Nella nostra famiglia non si fa”, “Mi farai morire di dolore”, sono voci internalizzate che alimentano carenze e diventano poi base costitutiva per l’organizzazione dell’intera personalità.

La concezione processuale che produce la tecnica del Continuo favorisce un atteggiamento che mette in primo piano la persona con ciò che direttamente produce nell’incontro terapeutico, propone repertori in linea con una visione dell’uomo che si manifesta ed esiste nel suo divenire. Permette immediatezza e apre la possibilità di trattare con i contenuti interni. Prepara il lavoro sulle strutture. La pratica del Continuo è un esercizio di filosofia applicata e derivato congruente dei principi fin qui enunciati. È una prassi terapeutica che diventa filosofia esistenziale. Associa l’essere consapevole a un atteggiamento di trasparenza, un porsi aperto di fronte a se stesso e all’altro, come atto di accettazione del limite e come elemento di normalizzazione della fantasie illusorie che sostengono il dover essere  in opposizione all’essere come si è, prima tappa per mete più ambiziose che si incontrano nel viaggio di scoperta della mente sottile. La consapevolezza tuttavia non è sufficiente per la vita quotidiana se non è associata alla responsabilità che prevede il tradurre la comprensione in azioni conseguenti.

La Gestalt è una terapia che mira al cambiamento e per questo scopo sono necessarie risposte effettive, concrete. C’è da correre il rischio di sperimentare nuove possibilità, il che prevede lo stare nel qui e ora. Le rivisitazioni del passato, che ovviamente sono parte della terapia, hanno senso solo se trovano riscontro e si riflettono nell’oggi, provocando conseguenze dirette nel presente. Claudio Naranjo, come già detto, approfondì le intuizioni di Perls e tra i primi frutti venne fuori un modello associato di Continuo di consapevolezza e meditazione, applicato alla relazione interpersonale. La vicinanza con le tradizioni spirituali risultò particolarmente evidente nel confronto con la meditazione Vipassana. Il movimento gestaltico già con Perls aveva ricevuto influenze da quanto negli anni Sessanta si andava incorporando nella cultura della crescita e dello sviluppo personale che si diffondeva negli Stati Uniti, attraverso maestri di differenti tradizioni che incominciavano ad aprire la loro conoscenza, tenuta segreta per secoli, al mondo occidentale. Anche in questa direzione Perls fu un pioniere e le matrici di un’attenzione a livelli di coscienza più sottili che coinvolgevano una sfera che oggi potremmo definire del non io, si possono incontrare già nel suo primo libro, L’Io, la fame, l’aggressività (1995), nel quale negli anni Quaranta del secolo appena trascorso, parlava di vuoto fertile, trovando ispirazione in S. Friedlaender.

Quello fertile è il vuoto che creativamente dà vita a nuove esperienze. Nella meditazione Vipassana, allo stato di vuoto, il praticante associa l’attenzione ai fenomeni che si manifestano nella coscienza e si limita a osservarli senza entrare in alcun giudizio o valutazione. Il pensiero viene sospeso a favore di una consapevolezza senza coinvolgimento. La mente discorsiva produce distrazione e favorisce il cristallizzarsi di fenomeni di attaccamento che tendono a separare la realtà percettiva scindendola in forme dualistiche, ciò che va bene e ciò che no, io e l’altro da me. Si creano polarità e di qui la spinta alla scelta e il conseguente conflitto. Perls intuì che la presenza delle polarità non va trattata con l’eliminazione dell’una o dell’altra. Al contrario, le polarità vanno integrate. Così si sperimenta la pienezza delle esperienze unitarie che è di più ed è altra cosa rispetto alle due parti separate. La consapevolezza connessa all’integrazione è più che un insigth, è un piccolo satori. È il risultato ultimo a cui mira la tecnica delle due sedie. Quando i poli si integrano nasce una nuova forma, cessa il conflitto e l’esperienza precedente, che si esaurisce, dà spazio alle nuove opportunità. Da una tradizione mirata alla crescita spirituale deriva una psicologia del sottile. La mente vuota produce pienezza e salute mentale. L’attenzione che si fissa può interrompere quello che i processi naturali continuamente ci mostrano: tra un pensiero e l’altro c’è uno spazio vuoto e in quello stesso vuoto nasce il nuovo. Dal punto di vista clinico il paziente può apprendere a decostruire i propri schemi affidandosi maggiormente alla natura dei processi e può scoprire che nel vuoto della mente non trova un angosciante nulla, il vuoto nichilistico sinonimo di morte. Nel vuoto meditativo trova il non definibile, la natura profonda del suo essere. Può perdere la maschera, l’immagine nella quale si è identificato come esistente, ma non la consapevolezza dell’esistere. Questa è una grande scoperta.

 

Il vuoto in terapia

Con quanto detto fin qui assume diverso significato anche l’intervento frustrante del terapeuta. Nella prassi di lavoro la Gestalt associa a momenti di supporto e partecipazione altri di ritiro e frustrazione. Il terapeuta sottrae il proprio appoggio e lascia o spinge il paziente nel vuoto. Chi resta senza riferimenti, dopo un tempo di smarrimento, incomincia a orientarsi e tra le diverse possibilità, nella confusione, opera scelte cercando i suoi propri appoggi. Perls fu convinto che bisogna attraversare il dolore e invitò a farlo per emergere a nuova vita. L’angoscia esistenziale connessa alle fantasie nichilistiche, alla perdita d’essere, va sperimentata e il terapeuta ha il compito di farlo fare. Non solo supporto e partecipazione, la frustrazione diventa strumento terapeutico. La Gestalt ha preferito offrire stimoli perché il paziente cerchi in sé e trovando possa alimentare fiducia. È possibile farcela, c’è altro al di là della nevrosi. Spingere il paziente nel vuoto non è crudele. Lo diventa quando il terapeuta stesso non osa avventurarsi in quello spazio e quindi non è in grado di fornire l’implicita rassicurazione che viene dalla sua conoscenza diretta. Naturalmente questo discorso ha bisogno di aggiustamenti quando trattiamo pazienti molto regressivi che necessitano di più appoggio e più struttura. In questi casi diventa necessario favorire prima la costruzione di appoggi interni.

 

Una concezione della personalità

A questo punto e dopo quanto premesso, voglio abbozzare una teoria della personalità che si occupi anche di strutture e non solo di processo come in generale nel mondo della Gestalt è avvenuto. Pur avendo l’ambizione di mirare alla processualità e una metodologia che lo consente, a mio parere è riduttivo considerare e definire la Gestalt solo per tali caratteristiche, senza occuparsi dei contenuti e dell’organizzazione delle forme cristallizzate che sono sottese alle potenzialità processuali e che di fatto le limitano. Un Continuo di consapevolezza fluido comporta un effettivo stare nel qui e ora, somiglia allo scorrere spontaneo dell’esperienza, come nel Tao. Quindi, realisticamente, è un punto d’arrivo. C’è altro a cui guardare. Perls nella lunga intervista riportata in L’eredità di Perls. Doni dal lago Cowichan (1983), afferma, e lo fa con forza, che la psicoterapia della Gestalt mira alla struttura: “Esaminiamo la struttura, quando comprendiamo la struttura allora possiamo cambiarla. È la struttura che cerchiamo nella psicoterapia della Gestalt, è la struttura che ci interessa di più, è la struttura del copione della nostra vita”. E prosegue: “Cioè la struttura di come evitiamo l’immediatezza dell’esperienza”. Il processo e la struttura sono interdipendenti. Perls parla di copione, cioè della mappa intorno alla quale si organizza l’esperienza umana.

I Copioni sono determinati da influenze culturali, familiari e individuali, e danno vita a modi di essere e comportarsi che sono specifici, stabili e ripetitivi. Sono forme attraverso le quali le persone realizzano i propri progetti esistenziali. Perls toccò il tema ma non lo approfondì. Al contrario, lo fece E. Berne, che provenendo anch’egli dalla psicoanalisi e da essa dissociatosi, fu curioso per la complessità dei fenomeni e volle indagare e intendere i modi attraverso i quali si organizzano le strutture. Per una terapia più profonda e articolata diventa necessario trattare i contenuti per potere aggiornare le vecchie Gestalt, magari facendo rivivere scene arcaiche: nelle quali si nascondono il represso e le regole che organizzano il copione di vita, lo script. Si può destrutturare lo schema perché assuma forme più flessibili o lavorare per reintegrare le parti alienate dalla coscienza e riempire i vuoti. Il terapeuta dà il permesso e il paziente apprende ad affermare il diritto di essere “come è”. Anche il solo confrontarsi con l’assurdo di vivere oggi secondo modelli fissati in epoche lontane della nostra infanzia e adolescenza, può avere un forte impatto. Ma in ultima analisi bisogna fare i conti con il boicottaggio interno, le autoelaborazioni che durante i processi di incorporazione ingigantiscono le esperienze originarie. Personaggi della mente che vogliono mantenere lo status quo, anche se fa soffrire, perché ha il vantaggio di essere noto e come tale è più rassicurante. Il freno al cambiamento è dato dall’identità acquisita, di cui si è detto in precedenza, frutto del copione, il quale è organizzato e controllato da nuclei ideativi, convinzioni arcaiche, maturate da bambini condizionati, spesso impauriti, con visioni del mondo distorte dalla loro dipendenza e fragilità. I pensieri così fissati e divenuti modelli ispiratori ripetitivi, attraversi i quali viene interpretata la realtà, finiscono per dirigere la vita anche nel futuro. Aiutarono a farsi un’idea del mondo che anche se alterata, rassicurò.

Oggi costituiscono pesanti impedimenti nel vivere la quotidianità e ostacolano la crescita. R. Erskine (1980), analista transazionale ed esperto di Gestalt,  formulò una teoria per la quale le convinzioni di copione costituiscono una chiusura cognitiva di Gestalt non concluse. In pratica, la frustrazione di bisogni diventa più accettabile se il bambino può darsi una spiegazione sul perché e quella spiegazione, in forma allucinatoria, chiude la Gestalt aperta. E non importa se il perché implica una svalutazione di sé o del mondo: “Sono cattivo, non valgo nulla, ce l’hanno con me…” o altro. Avere delle ragioni per la propria sofferenza lenisce il dolore e ne favorisce l’accettazione. Ciò che diventa intollerabile è il non poter spiegare gli eventi e quindi le cause delle proprie insoddisfazioni. Naturalmente una soluzione siffatta, oltre a non risolvere, provoca ulteriori complicazioni date dall’inganno cognitivo che sposta la ricerca degli impedimenti e il cambiamento in altre direzioni. L’insieme di pensieri irrazionali che sostengono il copione, alimenta emozioni a essi congruenti che vanno a sostituire quelle naturali, uniche in grado di favorire la soddisfazione dei bisogni. In pratica, se il bambino apprende a reprimere la paura e la sostituisce con un atteggiamento di sfida e di falso coraggio, così facendo, si impedisce di ottenere la necessaria protezione e, a causa della sfida che mette in atto, corre rischi che non può ragionevolmente gestire. Non si rende conto del pericolo. Rinunciando alla protezione sostiene la controfobia, magari con l’appoggio di idee del tipo: “Nessuno mi aiuta, dovrò sbrigarmela da solo e ci vuole coraggio”.

Quello che fu un artificio per risolvere stati emozionali che non riusciva a gestire, con il tempo è diventata una decisione stabile che condiziona e governa la sua esistenza. È necessario recuperare le emozioni naturali. A questo scopo può essere utile andare al passato. Utilizzando una modalità regressiva e lavorando con una scena traumatica, disarticoliamo la trama copionale. Non basta il solo recupero dell’emozione, bisogna trattare anche i nuclei cognitivi che hanno dato vita alla Gestalt fissata e ancora la sostengono. Quando si lavora sul copione è importante scoprire come si è organizzata la personalità. Non è sufficiente il come si funziona, il processo porta con sé la struttura, i livelli sono interconnessi. Se nel processo la vita si manifesta e fluisce e la meta è quella di un’esistenza che si adatta creativamente alla realtà che cambia, in un continuo divenire, nella struttura si stabiliscono le regole che poi si fissano, del come muoversi e del cosa fare o a cosa rinunciare. Le strutture governano il processo e alle strutture bisogna tornare per rinnovare e riacquisire le potenzialità perdute. La rivisitazione del passato, come fenomeno proiettivo della realtà presente, riporta le esperienze a un aggiornamento che implica nuovi significati e la disponibilità di nuova energia.

 

Il carattere

Quindi, pur focalizzando la sua metodologia di lavoro soprattutto sulle manifestazioni e pur considerando il Continuo di consapevolezza un’esperienza altamente terapeutica, F. Perls non dimenticò l’importanza della struttura. Al principio di preferenzialità ritengo si possa affiancare, come polarità integrativa, un principio organizzante. Non è vero che il tutto è più della somma delle parti (Perls, 1969), e in ogni caso non per il solo fatto che le parti vengano messe insieme, per pura associazione. Per avere acqua non basta unire ossigeno e idrogeno, occorre una scintilla. Alla base della formazione di un cristallo ci sono principi organizzanti ed è così anche per la costruzione dei modelli adattivi nell’uomo. Perls, come già visto, invita a esaminare le strutture, comprendendo la struttura possiamo provocare il cambiamento. “La struttura di come evitiamo l’immediatezza dell’esperienza”, lo ripeto. Il fine ultimo è raggiungere la spontaneità naturale, ma la via diretta può essere impraticabile ed è necessario allora prima destrutturare le forme acquisite. Gli uomini progettano i propri modi di vivere e si danno un carattere che tendono a mantenere costante. C’è un’equivalenza tra carattere e copione, entrambi si formano in età precoce. Sono il prodotto di decisioni esistenziali arcaiche e tendono a definire modi stereotipati e ripetitivi di essere e comportarsi. Nel teatro il carattere qualificò e standardizzò i ruoli posti alla base dei repertori drammatici di ogni epoca. Basti come esempio la Commedia dell’Arte, forse il più grande contributo che il teatro abbia dato alla caratterizzazione dei tipi umani.

Nel mondo della psicologia se ne interessarono Freud, Abraham e in maniera più articolata Reich che fu, lo ricordo, analista di F. Perls. Quest’ultimo non elaborò una sua specifica teoria del carattere ma fu attento, come Reich, alle manifestazioni del corpo e alle sue espressioni. Guardò ai piccoli segni. Un gesto, un movimento di ciglia, un tremore, resi consapevoli, possono dare accesso a, esplorazioni profonde e mettere a nudo parti rigide e strutturate della personalità, quelle che sostengono le formazioni caratteriali che poi nella quotidianità si manifestano attraverso ruoli e maschere. Il sorriso stereotipato, l’espressione severa, l’atteggiamento ritirato, distante, o la tristezza stampata nelle pieghe del volto, è quanto appare, il visibile. Sullo sfondo sono attive le regole organizzative, quelle che formano e sostengono la struttura. Il carattere, fondamentalmente ha scopo difensivo, rassicura. L’intenzione adattiva produce una maschera rigidamente fissata. Una parte dura che protegge dagli attacchi veri o presunti alle zone fragili dell’io. Nel teatro la maschera rinforza il ruolo e nella vita evidenzia ciò che la persona vuole che si veda di sé, attraverso espressioni, posture, gesti e atteggiamenti costanti nel tempo. Ma gli aspetti difensivi non sono tutto, il carattere è anche un insieme creativo di scelte fatte per definirsi, differenziarsi o assimilarsi ad altri, per essere qualcuno che ha senso e che fa parte del mondo.

È quindi utile ai fini della terapia conoscere tale complessità e intendere quanto sia importante per il paziente difendere il modello che si è dato. C. Naranjo fa risalire l’elaborazione delle mappe caratteriali alla necessità di far fronte al vuoto esistenziale che è stato prodotto per effetto di una scissione originaria. L’uomo gettato nel mondo sperimenta una perdita di unità. Separato dalla sua saggezza soffre per la nostalgia di uno stato perduto. È l’esperienza di chi si guarda alla ricerca di qualcosa che neanche conosce e poiché non lo trova si dispera. Lontano dalla sua essenza l’uomo non ha riferimenti e angosciato cerca sicurezze a cui appigliarsi, appoggi stabili che con il tempo restano sempre gli stessi. Indossa maschere, una pelle per tutte le stagioni, e perde flessibilità. Il comportamento si ripete, quotidianamente, meccanico e sterile, privo di motivazione. Il carattere è la maschera che ci fa sentire io e in essa ci identifichiamo. Confondiamo l’essere con l’artificio inventato per sopravvivere. Viviamo in un inganno che diventa il modo di stare nel mondo. Un tipo di carattere non è migliore di un altro, ma soltanto una delle forme attraverso le quali l’umanità si manifesta e ciascuna di esse con tante e diversificate sfumature, uniche per ciascun individuo. La conoscenza dei tipi umani, secondo il modello che vado presentando, viene da lontano. Il primo che ne parlò in Occidente fu G. Gurdjieff, il fondatore della Quarta via che però non lasciò una mappa articolata dei suoi insegnamenti.

In seguito O. Ichazo ne trasmise la conoscenza a un gruppo di ricercatori, fra i quali C. Naranjo. In questo modo e attraverso l’insegnamento di Naranjo stesso, l’enneagramma, così si chiamava nella tradizione il sistema di conoscenza al quale mi sto riferendo, diventò patrimonio implicito della corrente di psicoterapia della Gestalt che ponendosi come continuatrice dell’insegnamento dell’ultimo Perls, viene oggi riconosciuta come la scuola di C. Naranjo. Il modello originario, attraverso studio e approfondimento pratico, e l’esercizio di anni di ricerca e applicazione, venne ampliato e integrato secondo le forme di una moderna psicologia e prese il nome di psicologia degli enneatipi, per distinguerla dalla proliferazione di enneagramma alla quale si assiste da alcuni anni. Ciò che conta ai nostri fini è che il lavoro con gli enneatipi assume una connotazione gestaltica, per cui si integra con i principi sopra enunciati e la filosofia esistenziale e fenomenologica che li caratterizza. È quindi evidente che non si tratta di un semplice modello diagnostico. Anche, ma ciò che conta, per chi lo apprende, è prima di tutto la possibilità di assumere consapevolezza diretta del proprio modo di essere e comportarsi, attraverso esplorazioni guidate che aprono la via a una più libera ricerca personale.

Il lavoro comporta la scoperta e la conoscenza dei nuclei caratteriali specifici per ciascuno dei tipi, al fine di discernere identificazioni e differenze, tanto da potersi definire appartenenti all’una o all’altra categoria, con le implicazioni che ne derivano, per raggiungere stati di coscienza che permettano di sperimentare nuove modalità di contatto con sé e con l’altro. Gli enneatipi sono nove e ciascuno di essi si articola ulteriormente in tre subtipi. Sicché il panorama complessivo comprende ventisette tipologie. Il solo poterle riconoscere e diventare consapevoli delle loro implicazioni e interferenze, produce notevoli vantaggi. Una maggiore consapevolezza del come siamo può suscitare il desiderio di lasciare i vecchi trucchi e le vecchie maschere, per aggiornarle e poter mettere in scena un teatro diverso. Il carattere, nelle sue forme limitanti, si organizza intorno a due nuclei, due centri, uno emozionale, l’altro cognitivo, ai quali corrispondono rispettivamente l’enneagramma delle Passioni e quello delle Fissazioni.

La passione è uno stato emozionale caratterizzato da una coloritura esagerata fuori misura, e proprio in quanto tale paradossalmente non porta ai risultati auspicati. La passione è alimentata da un pensiero del tipo: “Se lo faccio di più otterrò il risultato”. È un modo di pensare infantile che trova nella grandiosità l’illusione di poter ottenere, aumentando il coinvolgimento, ciò che è difficile ricevere. Ci si propone di arrabbiarsi di più, di lamentarsi di più, di mostrarsi di più se l’effetto, superati certi limiti, può essere addirittura il contrario e in ogni caso non soddisfacente. Ma come già visto a proposito del copione, una volta acquisiti dei modelli e certe visioni, anche se distorti e irrazionali, alla fine diventano stabili e ripetitivi. Si continua imperterriti in atteggiamenti visibilmente improduttivi e risulta difficile adottarne altri. La passione confligge con l’emozione e a volte la sostituisce impedendo che svolga la sua funzione naturale, quella di promuovere l’azione e quindi il risultato. Se sono triste forse mi consoleranno, ma se la tristezza diventa un habitus, piuttosto che avvicinarsi, le persone andranno via.

La richiesta petulante e lamentosa è inefficace perché non è mirata a risolvere un malessere, ma piuttosto a manipolare l’altro, magari per trattenerlo in un vincolo simbiotico. Le passioni hanno ciascuna un nome che evoca complessità di tratti e comportamenti ai quali sono sottese strutture organizzative della personalità. Sono nomi che vengono dalla cultura tradizionale, un esoterismo vetero cristiano, che nell’elaborazione di Naranjo hanno assunto articolati contenuti psicologici. Le nove passioni sono: ira, orgoglio, vanità, invidia, avarizia, paura, gola, lussuria, pigrizia. A ciascuna passione, sul versante cognitivo, corrisponde una fissazione. In pratica un nucleo di pensieri irrazionali, idee pazze, e come tali non aderenti alla realtà. Le valutazioni e le aspettative, anche in questo caso, non sono congruenti con l’esperienza effettivamente vissuta ma sono basate su pregiudizi e valutazioni distorte dei fatti. Per ottenere riconoscimento, per esempio, non basta comportarsi bene o nascondere i propri limiti, che già è una svalutazione, ci si convince che bisogna annullare i propri desideri o presentare di sé una immagine senza macchia. Sono esagerazioni cognitive alimentate da idealizzazioni illusorie, meccanismi tipici del bambino arcaico. Tutto diventa di più e la persona perde spontaneità, si trasforma in uno stereotipo. La domanda a cui risponde è del tipo: “Come devo essere per avere diritto a vivere e per avere uno spazio nel mondo?”. La risposta data si fissa e resta, inconsapevolmente, sempre la stessa nel tempo. Come colui che si convince che solo soffrendo riceverà amore, e lacrima dopo lacrima resta comunque insoddisfatto. Le nove fissazioni sono: perfezionismo, sovrabbondanza, autoinganno, insoddisfazione, isolamento, accusa e autoaccusa, fraudolenza, vendetta, iperadattamento. Passione e fissazione sono strettamente interconnesse, frutto di antiche decisioni infantili che strutturano i Copioni di vita e danno forma al carattere: un modo di essere e comportarsi, stereotipato e ripetitivo che si autoalimenta. Il carattere è quello che fa dire di una persona: “È fatto così”. Diventa un’identità e definisce i passi della nostra vita.

 

I nove caratteri

Voglio ora passare in rassegna in maniera sintetica alcuni aspetti caratterizzanti le nove tipologie. Sottolineo che la presentazione dei caratteri può essere molto estesa e articolata e che un’effettiva conoscenza passa in ogni caso attraverso un’approfondita esperienza personale.

  1. L’ira – perfezionismo. La passione è l’ira. Si manifesta soprattutto in forma di esigenza.  L’iroso chiede molto a se stesso e agli altri. Le cose non vanno bene così come sono, vanno cambiate. Cerca riconoscimenti attraverso lo sforzo e l’impegno. È più importante meritare che godersi i risultati. Il perfezionismo lo spinge a fare sempre meglio e sempre di più. Alla base c’è l’idea che solo se perfetto potrà essere accettato. Atteggiamento moralista.
  2. Orgoglio – falsa abbondanza. Atteggiamento superbo. L’orgoglioso tende a sopravvalutarsi. Nasconde a se stesso e agli altri le proprie carenze e si propone pieno di cose buone da offrire. Di fatto fa più promesse di quelle che mantiene. È un carattere di tipo isterico e piuttosto volubile. Usa la seduzione per raggiungere i propri obiettivi. L’ambizione lo spinge verso sempre nuovi territori e nella relazione con l’altro sesso è soddisfatto soprattutto della conquista. Per la sua falsa generosità può essere madre soffocante.
  3. Vanità – autoinganno. Si identifica nella sua immagine. Vive per il riconoscimento e si inganna: si sente ciò che appare e senza immagine da proporre questo tipo può cadere in un profondo senso di vuoto. È quindi persona che si adatta alle circostanze e risponde adeguandosi a quanto le viene richiesto. Cerca approvazione e riconoscimento che a volte viene dal suo fascino di uomo o donna, a volte dalle sue capacità o efficienza. L’atteggiamento è di bravo bambino e disponibile.
  4. Invidia – sofferenza. L’invidioso guarda a ciò che hanno gli altri e deduce che lui ha sempre meno. E per questo soffre. Gli manca amore e non solo. Vive un profondo senso di svalutazione e carenza ai quali sembra che nulla e nessuno possano riparare. Lamentoso o aggressivo lotta per avere uno spazio nel mondo. Pretende aiuto ed è molto emozionale. Può essere competitivo o può ritirarsi in una forma di falsa autonomia. Sogna il principe azzurro che un giorno finalmente verrà.
  5. Avarizia – isolamento. È un tipo che tende al ritiro. Preferisce l’isolamento al contatto con il mondo. Avaro soprattutto nell’espressione dei sentimenti. Può essere freddo e distante nella relazione. Osserva la vita piuttosto che partecipare. Ha una convinzione profonda: nel gioco del dare e del ricevere ci si rimette sempre, quindi tanto vale non entrare in questi scambi. Può avere grandi interessi per la cultura, la musica, la crescita personale e vivere forti idealizzazioni.
  6. Paura – accusa/autoaccusa. Insicuro di fondo, cerca protezione. Alterna il persecutore e la vittima. Impaurito soprattutto dal giudizio e dalla critica altrui vive una sorta di inibizione dell’azione che lo immobilizza. Si arrovella nel dubbio e tende a non agire e a intellettualizzare. Cerca appoggio nell’altro o in teorie che usa come sostegno. La paura si manifesta anche nelle forme controfobiche. In questi il tipo sei non teme il rischio e diventa sfidante e aggressivo.
  7. Gola – astuzia. Il goloso segue il piacere. La sua astuzia è rivolta a evitare esperienze che gli procurerebbero dolore. Evita quindi tutto ciò che gli appare come spiacevole. Cerca il dolce della vita e per questo segue sogni e fantasie. Pianifica e progetta piuttosto che concretizzare. Carattere più ritirato di quanto appare, si propone simpatico e socievole, disponibile al “servizio”. Rimpiange il tempo più fantasticato che reale di un’infanzia felice perduta, e non si rassegna a crescere.
  8. Lussuria – vendetta. Il lussurioso vive intensamente. Ama le esperienze forti ed è alla costante ricerca di sensazioni. Tende al comando e a imporsi con la forza, a volte espressa, a volte “suggerita”. Le sue reazioni, anche violente, sono azioni preventive. Prima ancora di ricevere il danno attacca. Le violenze subite lo hanno reso ipersensibile e la sua vendetta agisce come riflesso di un passato che non dimentica. Questo carattere è il più antisociale.
  9. Pigrizia – iperadattamento. È un pigro nella coscienza piuttosto che nell’azione. Ha poco contatto con il profondo. Gli manca capacità introspettiva. Generoso verso gli altri, si prodiga nell’aiuto fino a dimenticarsi di sé. Si adatta oltre misura e non chiede nulla. Può riempire le sue carenze affettive riempiendosi di cibo o accumulando esperienze. In certi casi stabilisce rapporti fusionali, in altri è un buon compagno, a volte leader, allegro e gioviale.

Meccanismi difensivi

In L’Io, la fame, l’aggressività, Perls, ancora psicoanalista, enumerò una gran quantità di meccanismi difensivi. ln seguito li ridusse a quattro.  Lì chiamò meccanismi nevrotici per sottolineare i limiti che impongono alla naturalezza del comportamento. Sostanzialmente hanno la funzione di indurre e poi sostenere l’evitamento di esperienze considerate troppo rischiose. In definitiva sono fenomeni difensivi, organizzati su base cognitiva. “Interferenze quotidiane… croniche” (Perls, 1995), frutto di valutazioni, divenute inconsce. In pratica confliggono con la soddisfazione dei bisogni e precludono una sana relazione con l’ambiente. Ebbero un andamento parallelo alle fasi del ciclo di contatto, processo che, com’è noto, si articola a partire dall’emergere delle sensazioni, all’inizio poco definite, per passare poi alla piena consapevolezza di ciò che è necessario all’organismo, fino alla soddisfazione di un bisogno specifico, a cui segue uno stato di quiete quando cala l’eccitazione. All’attività segue il riposo. I meccanismi considerati furono infine: confluenza, introiezione, proiezione, retroflessione. Naranjo riprende il tema delle difese e le collega al carattere che assume la coloritura del sistema difensivo prevalentemente adottato. La difesa non è limitata solo a momenti di evitamento, ma caratterizza la personalità nella sua interezza. Quindi possiamo associare tante forme difensive a quanti sono i caratteri e i loro subtipi. Qualcosa viene vissuto dal bambino come pericoloso per cui lo allontana dalla coscienza e crea al suo posto un sostituto, una sorta di difensore ma anche di persecutore interno, in grado di coprire e mascherare desideri e bisogni. I meccanismi difensivi si organizzano, come il copione, su fondamenti decisionali. Il bambino cerca alternative nel repertorio delle opzioni possibili, ovviamente condizionato dalla sua visione infantile, e opera scelte. Il processo decisionale diventa poi inconsapevole e resta visibile solo il comportamento che ne deriva. Quindi la difesa forma una barriera tra la spontaneità dei vissuti e gli adattamenti assunti, fino a diventare una qualità costitutiva del carattere. Indicherò di seguito soltanto i meccanismi principali, suddivisi per ciascun tipo e scegliendo, come fa Naranjo, quelli che determinano anche una specificità caratteriale, per cui sono presenti nell’atteggiamento complessivo della persona e non solo nei momenti di rischio, quando si fanno più evidenti.

  1. L’iroso tende a reagire difensivamente con la formazione reattiva, meccanismo attraverso il quale reprime le emozioni che ritiene negative e in particolare la rabbia, mostrandosi sicuro e sereno. In questo modo sostiene l’esigenza e la convinzione che è necessario essere perfetto.
  2. L’orgoglioso si difende attraverso l’istrionismo. Teatralizza l’esperienza, agisce sopra le righe e tende a emozionalizzare i suoi vissuti. Enfatizza il discorso e, con il forte desiderio di impressionare l’altro, esagera diventando ridondante.
  3. Il vanitoso reprime bisogni e desideri, mostra di sé la superficie. Il controllo è forte. Dà poco spazio agli impulsi e alla spontaneità, il che gli permette di mantenere l’immagine che ritiene al momento più opportuna per conservare il diritto a esistere. Fa ciò che piace al mondo.
  4. L’invidioso tende a introiettare e a retroflettere. Incorpora la madre carente e pur di non perderla la porta con sé. Sente forte il senso dell’abbandono e retroflette per non esprimere le sue richieste che immagina verrebbero male accolte. In tal modo frena la propria rabbia, distruttiva, che diventa autoaggressione e autosvalutazione.
  5. L’avaro si difende isolandosi. Vive una profonda scissione tra emozioni e intelletto. Compartimentalizza le sue esperienze e con persone diverse può vivere aspetti diversi di sé. L’isolamento lo tiene lontano dal mondo e gli permette di non coinvolgersi con affetti che immagina gli procurerebbero sofferenza.
  6. Il pauroso tende alla proiezione e all’identificazione con l’aggressore. Un mondo che vive pericoloso si popola di situazioni rischiose e questo richiede una protezione preventiva. Per esorcizzare il persecutore può identificarsi in chi presume lo stia accusando e agire alla stessa maniera, rendendo vittime altri.
  7. Il goloso tende alla razionalizzazione. Si difende con il pensiero costruendo mondi irreali nei quali si rifugia attraverso sogni a occhi aperti. Non accetta il rimprovero né l’essere colto in flagrante e cerca spiegazioni astute o addirittura inventa storie per trovarsi dalla parte della ragione.
  8. Il lussurioso è carattere forte e il suo meccanismo difensivo lo aiuta attraverso la Scappa dal dolore e si lancia nella mischia incurante dei pericoli. Cerca sensazioni forti e allontana da sé, rendendosi impermeabile, le esperienze che lo metterebbero in uno stato di dipendenza e fragilità.
  9. Il pigro si difende con la distrazione. Perde il contatto con i suoi vissuti e l’attenzione va ad altro. In Gestalt si parla di deflessione. In tal modo evita il rischio dell’intimità e del contatto con sé. Altro meccanismo è l’identificazione dal quale deriva la proflessione. Non potendo avere la madre per sé diventa lui stesso madre, ma di altri “bambini”.

I tre istinti

Oltre che sul livello emozionale e su quello cognitivo l’esistenza e quindi il carattere sono governati da tre istanze di base, tre principi che, presenti in ogni individuo, ma in misura diversa, caratterizzano ulteriormente i tipi psicologici. Gurdjieff parlò di esseri tricerebrati e Naranjo ne riprese il tema per definire ulteriormente la teoria del carattere anche sulla base degli istinti. Il carattere si organizza su tre matrici diverse, tre subtipi: il conservativo, il sociale e il sessuale, che danno ulteriori connotazioni e a volte stabiliscono profonde differenze in ciascuna delle nove tipologie di base. La persona più tendente al conservativo mira soprattutto a preservare la propria esistenza e a ripararsi dai possibili rischi che provengono dal contatto con il mondo. Si protegge e assume modi di vivere che riflettono sfiducia e bisogno di sicurezza. Il suo comportamento è una risposta alla domanda: “Cosa faccio per sopravvivere?”. Il tipo che si rivolge di più al sociale cerca di realizzarsi nella relazione e in quell’ambito presceglie i suoi adattamenti. Per il carattere sociale il mondo esterno assume maggior peso rispetto a quanto gliene attribuisce il tipo conservativo, sia quando da esso si lascia inibire e sia quando in esso trova spazio privilegiato di azione. Attraverso la relazione con l’altro si dà identità. Il tipo sessuale, più che gli altri, è dotato di energia che rivolge al piacere e alle esperienze intense. È un carattere espressivo che tende a prendere spazio anche se a volte solo in territori ristretti. In certi casi privilegia la fantasia e il sogno. Gli istinti sono alla base dell’esistenza stessa ed è naturale che influenzino la formazione del carattere. L’obiettivo ultimo è quello di andare oltre l’ego e l’enneagramma propone a questo scopo le sue vie. Sono vie che guardano all’essere, al recupero dell’Essenza di cui non parleremo in questa sede.

 

Il teatro trasformatore

Come è noto F. Perls fu molto influenzato dal teatro ed ebbe esperienze dirette, in Germania, con Mayercold. Il suo modello terapeutico usò la drammatizzazione come strumento per amplificare la consapevolezza e soprattutto per rendere viva l’esperienza evidenziandola attraverso una forma di espressione che facilita un olismo effettivo. Durante la drammatizzazione delle parti non solo si attivano altre forme di pensiero, viene anche facilitato il contatto con la sensorialità e le emozioni. Pertanto avvengono più cose nello stesso tempo e più rapidamente. Nella tradizione gestaltica la drammatizzazione è usata in maniera diversa che nello psicodramma. Molte sono le differenze, ma quella sostanziale è che la Gestalt non si avvale di io ausiliari e neanche costruisce un’esperienza terapeutica organizzandola. L’attore unico è il paziente, guidato dal terapeuta. Che si lavori con la sedia calda o con le due sedie o ci si identifichi nelle parti di un sogno, il protagonista è sempre il paziente. L’ambiente in cui vive è popolato di cose e persone, ruoli e personaggi che riflettono le sue parti. Al paziente tocca riappropriarsene per poi assimilarle. Quanto è stato perso o alienato per le vicende della vita ha valore, è un patrimonio di potenzialità. Conviene integrarle. Pur avendo avuto da giovane esperienza di attore a livello professionale sono arrivato al teatro come forma di terapia soltanto da alcuni anni. Incominciai nei programmi SAT e per la prima volta in Brasile. Faccio un teatro terapeutico che è rivolto alla crescita. Il mio è uno stile molto vicino a quello di un teatro effettivo e ne conserva un po’ la magia. Il teatro, nella tradizione occidentale nasce dal ditirambo, rituale attraverso il quale veniva evocato il divino. In alcuni periodi storici, al contrario, non gli fu riconosciuto alcun valore educativo.

Il teatro ha una peculiarità: l’attore si esprime incarnando l’opera teatrale. E per farlo usa intuizione, ma anche intelletto. Nel momento della rappresentazione, il testo e chi lo recita coincidono: si manifesta un pezzo d’arte. Quando un attore e l’opera teatrale si incontrano, viene fuori un personaggio che vive solo per un tempo. Dopo la rappresentazione non resta alcun oggetto che viva di esistenza propria, come avviene per un quadro o una scultura. È come i tempi della vita. Ciò che resta è la memoria e a volte parte dell’esperienza vissuta, quando l’artista la assimila. Allora diventa parte di sé. In sintesi, nel caso del teatro, l’opera d’arte è lo stesso soggetto che la fa, ed è opera d’arte vivente. Come tale è sottoposta a cambiamenti determinati dalle relazioni che l’attore stabilisce con l’ambiente e con i suoi stati interni.

L’attore non può ripetere se stesso. Anche quando la tecnica diventa eccelsa ci sono sempre variabili determinate dalle circostanze. È lui che sperimenta e si trasforma nell’atto creativo. Il pittore, lo scultore, trasferiscono parti di sé nell’immagine, nell’oggetto che resta. L’attore, quando è consapevole del processo di costruzione del ruolo, può trasformarlo. Possiamo dunque usare questa esperienza per fare teatro terapeutico, trasformatore. I miei attori organizzano la loro rappresentazione, ne scrivono i testi e li mettono in scena. In una prima fase il lavoro è autodiretto e basato sulla spontaneità creativa degli autori interpreti. In una seconda fase il testo e la rappresentazione vengono rivisitati e a volte completamente riscritti, allo scopo di indurre consapevolezze e cambiamenti. Intervengo utilizzando le mie conoscenze delle mappe caratteriali e le applico ai pazienti attori. Uso la psicologia degli enneatipi e allo stesso tempo guardo alla struttura di copione. Creo situazioni sceniche perché il personaggio manifesti qualcosa che risulti significativo per chi lo interpreta. Così che l’attore, facendo teatro, in pratica attraverso un trucco, possa sperimentare ciò da cui fugge o quello che continua a ripetere in maniera meccanica o qualcosa di completamente nuovo per lui. “Il personaggio lo fa, non io”. Il teatro dà un permesso. Nel dialogo interno c’è un pensiero che sostiene il trucco: “Lo spettatore sa che è teatro. Sono attore e si sa che interpreto ruoli”. Non è lui. Lo stupido, il killer, il condannato a morte, quello pieno di voglie e desideri o il seduttore che sta rappresentando. Nel caso del teatro trasformatore il trucco dura solo per un tempo. Poi il paziente si rende conto che chi parla e si esprime è proprio lui e allora non c’è più nessun ruolo che lo protegga e nessuna maschera che copra.

È il momento della consapevolezza. Ora è scoperto, con i suoi lati sconosciuti e le potenzialità impreviste. Allo stesso tempo si liberano energia repressa e vitalità. Nell’azione teatrale è coinvolto il corpo e i sensi diventano più attivi. Se l’attore ste fermo e piantato sui piedi ottiene un effetto e se cammina saltellando un altro. La meccanicità del carattere tende a far riprodurre gli stessi movimenti in situazioni diverse e l’effetto comunicativo è senza impatto. La voce che parte dalle viscere ha colore ben differente e sollecita vibrazioni emozionali insospettate a chi abitualmente si esprime con suoni acuti, che risuonano della testa e rendono bambina anche una donna avanti negli anni. Creando il personaggio il paziente attore apprende nuove possibilità e invitato alla consapevolezza dell’esperienza ne scopre i significati. Si può imparare a essere assertivo, ad accogliere o ad abbracciare. Ci si può commuovere, arrabbiare ed esprimere gioia, sperimentare la tristezza e il dolore del dramma, il ridicolo o il surreale della commedia; ogni personaggio facilita la scoperta di qualche potenzialità e il repertorio per la vita si arricchisce di nuove vie possibili. Il gruppo di terapia è il pubblico, ma il vero pubblico è l’osservatore interno, è per lui che viene fatta la recita.  Senza spettatori manca energia. Il rimando partecipativo o silenzioso, le emozioni e gli stati d’animo di chi assiste, offrono lo sfondo che nutre l’azione teatrale e vivifica il personaggio. Se vuoi l’applauso guadagnalo. Guarda lì verso la platea, alle persone, non nel vuoto. È a loro che parli. Non stai recitando. Il personaggio è nella tua carne, dentro di te, nel tuo corpo. A poco a poco gli attori acquistano vitalità si trasformano e diventano veri, sentono e fanno sentire vibrazioni. L’attore si fa pezzo d’arte.

 

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