Psicoterapia integrata: Gestalt – Analisi transazionale – Transpersonale

da Antonio Ferrara
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Eclettismo e integrazione non hanno lo stesso significato.

Nel mondo della Psicoterapia sempre più le scuole si avvicinano e vanno reciprocamente integrando procedure e tecniche. Questo è un andamento naturale evidente anche nello sviluppo delle arti e delle scienze che attraverso processi integrativi tendono a caratterizzare la cultura di specifici momenti storici. Così avvenne per la musica nel periodo romantico, per l’impressionismo in pittura o per la fenomenologia nel campo filosofico. Ritengo che, come succede per ogni fenomeno culturale, al di là delle integrazioni, una scuola di psicoterapia si caratterizzi per la sua visione dell’uomo piuttosto che per l’aggregazione di teorie, procedure, tecniche e metodologie in un insieme eclettico privo di coerenza interna.

Le integrazioni vanno assimilate al sistema di pensieri e valori che costituiscono il nucleo organizzante di uno specifico modello terapeutico. Con questo non voglio escludere che sia possibile intervenire su varie forme di disagio utilizzando semplicemente strumenti tecnici o procedure che di per sé risultano efficaci. Le psicoterapie fenomenologiche sono però fondate su visioni dell’uomo, e del mondo in cui vive, e queste determinano specifiche concezioni sul cambiamento. Anche se sempre più frequentemente e da diversi approcci, tra i quali la stessa psicoanalisi, siamo invitati a guardare al setting, perché è nello spazio-tempo dell’incontro terapeutico che si manifestano i fenomeni ed è possibile attribuire significati, piuttosto che appoggiarsi a precostituite teorie di riferimento, non va perduta l’attenzione ai valori e ai modi di pensare che ci guidano per raggiungere il paziente nella sua complessità esistenziale.

I disagi, i sintomi, le organizzazioni di personalità, e le stesse aree di salute mentale, vanno letti in una visione coerente, essendo tuttavia consapevoli che trattiamo con una coerenza relativa, riferita a momenti limitati nel tempo, considerata la natura trasformativa dell’uomo, rivolto com’è costantemente al possibile. Diventa allora centrale la formazione del terapeuta e la sua evoluzione. II suo “esserci”, inteso nel senso che a questo termine attribuisce Heidegger, è determinante per il processo di cambiamento e lo connota. Pur essendo convinto che gran parte della terapia si fondi sulla relazione e pur praticando secondo un’ottica contrattuale che fa ricadere la responsabilità del conseguimento dell’obiettivo su entrambi i poli che interagiscono d’altro canto penso che la qualità delle nuove prospettive che acquisisce il paziente sia molto influenzata dall’esperienza di vita maturata dal terapeuta e dai valori che trasmette mentre “cura”. In questo senso il suo impegno assume anche una valenza sociale, Il setting va oltre l’individuo e si allarga ad interessi che coinvolgono l’altro e non solo l’ “egoico” desiderio di benessere personale.

Tornando al concetto di integrazione, secondo quanto vado dicendo, è difficile concepire che un procedere comportamentista si possa associare ad una filosofia terapeutica basata sulla crescita personale come ad esempio per la psicoterapia della Gestalt e questo non vuol dire che in momenti dati non sia utile e vantaggioso anche per un gestaltista applicare tecniche di desensibilizzazione. Personalmente auspico aperture curiose e coerenti verso quanti per altre vie stanno mirando agli stessi obiettivi: la cura della sofferenza, certamente, ma anche l’attenzione a stimolare uno sviluppo creativo e a dare prospettive a visioni piatte e inaridite. Siamo devoti ai nostri maestri e ai fondatori delle scuole terapeutiche e questo legame con le origini ci dà continuità. Il nuovo non nasce dal nulla e conserva in sé parte del vecchio. Tuttavia è necessario essere aperti. Gli stessi fondatori, per quanto geniali, hanno guardato alla realtà psichica da alcune prospettive, peraltro legate ad un determinato periodo storico, mai da tutte. Ciascuno di essi ne ha approfondito soltanto degli aspetti, quelli verso i quali, per carattere e personalità, si è sentito maggiormente attratto e interessato.

Un processo di trasformazione è lungo e di fatto non ha termine. Propongo ai miei pazienti, fin dai primi colloqui, una terapia di ristrutturazione della personalità. Tuttavia come analista transazionale seguo gli insegnamenti di E. Berne, che coincidono con la mia inclinazione personale: mi occupo innanzitutto del malessere immediato e quindi di alleviarlo, pur tenendo realisticamente presente che i sintomi sono la manifestazione dell’intera personalità e che spesso hanno bisogno di molto tempo per recedere. D’altra parte, nella concezione gestaltica, il sintomo ha un contenuto creativo: è un modo attraverso il quale l’organismo si organizza creando un compromesso tra un “voglio” e un “devi”.

Pertanto costituisce una visita contro la manifestazione di desideri e bisogni, vissuti come troppo pericolosi perché in contrasto con divieti familiari e culturali. Se attraverso un “esperimento” il paziente verifica che non riceve le temute reazioni negative dal mondo esterno, l’effetto di rinforzo del nuovo comportamento può ridurre la tensione autoproibente e cambiare, in quella specifica area, l’assetto cognitivo. La conseguenza è che a volte il sintomo recede anche se non viene modificato il sistema di convinzioni e decisioni che organizzano la personalità. Ciononostante resta invariata la mia filosofia di fondo e mi sono sentito recentemente molto insoddisfatto quando un paziente, guarito in pochi mesi dal panico che lo attanagliava, lasciò la terapia pur avendo pesanti problematiche in sospeso. Aveva raggiunto il suo obiettivo, mi disse, e questo era quanto voleva. Naturalmente non potevo che accettare la sua decisione, coerente col nostro impegno contrattuale, ma sentivo dispiacere mentre lo vedevo allontanarsi ancora vuoto di energia, come uno “zombie”.

Essenzialmente mi sono formato in due scuole, Gestalt  prima e Analisi Transazionale dopo. Mi convinsi presto della loro complementarietà che veniva da somiglianze e differenze. L’una più attenta  al processo e all’esperienza, 1’altra all’analisi e al contenuto. Entrambe ebbero radici psicoanalitiche e si focalizzarono sui processi organizzativi della personalità. Sia F. Perls che E. Berne ebbero una visione fenomenologica della terapia. In particolare Berne definì gli stati dell’lo proprio in termini fenomenologici e considerò questo fattore come tratto di sostanziale differenziazione tra  la  sua  teoria  della  personalità,  basata appunto su  realtà fenomenologiche, come definì Genitore, Adulto e Bambino e quella freudiana, fondata invece su concetti: Super-lo, lo ed Es.

Perls dava di se stesso l’immagine di chi vive  pienamente calato nell’esperienza.

“lo sono ontologico” soleva dire. Fu sua profonda convinzione che sono le caratteristiche personali del terapeuta a fare la terapia, al di là di ogni teorizzazione. Il cambiamento avviene attraverso processi di crescita personale e il percorso formativo si fonda soprattutto sullo sviluppo della consapevolezza. La responsabilità connessa alla presenza nel qui ed ora diventa fattore di cambiamento e permette l’accesso a nuove prospettive. Il tema della responsabilità e della libertà sono centrali nella fenomenologia e nell’esistenzialismo. Per Heidegger l’uomo si fa da sè, attraverso le sue scelte. L’esserci, l’essere al mondo è il vivere della “medietà del quotidiano”, nella concretezza dell’esistere. Non c’è un essere puro, ma un essere nel mondo, che senza necessità di valutazioni positive o negative esiste, tra conformismo al “si”, a quanto gli viene dal fuori da lui, e le proprie elaborazioni delle possibilità. Sono evidenti le analogie nella terapia gestaltica, fin dalle origini critica nei confronti degli idealismi.

L’incarnarsi profondamente nell’esperienza è il modo attraverso il quale il paziente prende vitalità, accresce il suo potenziale e conosce il nuovo. Ma tutto questo non potrebbe esistere senza l’affermazione di un principio di libertà. Siamo liberi di prendere decisioni. È l’idea guida della teoria del Copione in Analisi Transazionale e siamo guidati dalla nostra decisionalità secondo la fenomenologia esistenziale di Heidegger. La libertà responsabile, cosi com’è concepita nella psicoterapia, ha significati polari rispetto a quelli dell’esistenzialismo di Sartre. La libertà non produce angoscia come nella visione del filosofo francese, ma fiducia,  prospettive e quindi crescita e sviluppo. Essere libero non significa assenza di riferimenti o essere abbandonato a se stesso. Nella mia pratica terapeutica gli aspetti creativi legati alla possibilità di rischiare il nuovo superando i confini dati, quel “si” al quale ci siamo conformati, si accompagnano alle certezze dei riferimenti, delle strutture, siano esse teorie, insegnamenti o modelli di maestri ai quali mi sono ispirato. Infine quello che propongo è uno stile terapeutico caratterizzato da protezione è permesso.

Ritengo strettamente collegata alla Gestalt e integrabile alla teoria del Copione, un’altra fondamentale esperienza formativa: la Psicologia degli Enneatipi, un sistema per la lettura del carattere fondato sull’Enneagramma, antica tradizione spirituale sufi, riscritta e rielaborata anche in termini di moderna psicologia da Claudio Naranjo. Questo strumento di diagnosi e cura unisce in sé la possibilità di trattare le organizzazioni “egoiche” e contemporaneamente propone percorsi “virtuosi” verso la salute mentale, attraverso l’apprendimento di comportamenti mirati e specifici per ogni tipologia, fino al graduale raggiungimento di successivi livelli di esplorazione spirituale, diretti allo stato contemplativo, scopo e fine ultimo dell’insegnamento dell’Enneagramma. Oggi ritengo che la pratica terapeutica e quella spirituale si articolino lungo un continuo.

La terapia apre alla spiritualità ed altro lato una visione spirituale e le pratiche meditative aiutano a risolvere i nodi nevrotici. Sto trattando di integrazione e nello stesso tempo sto proponendo una concezione delle necessità umane che si ispira direttamente a vissuti che permeano, anche se non in modo esplicito, la vita di ogni giorno. Mi riferisco a bisogni profondi, non solo tesi alla tutela della sopravvivenza e alla soddisfazione degli affetti più infantili, legati alle relazioni psicobiologiche, ma anche ai bisogni connessi alle aspirazioni, alle naturali tensioni etiche e al sentirsi più pienamente umani. Non solo quindi, e legittimamente, protesi alla organizzazione di uno stato di benessere, evocativo di situazioni arcaiche perdute ho soltanto fantastica te, ma anche di quelli connessi a “possibili” sconosciuti, quelli che danno senso e significato al nostro vivere. Pur se la psicologia, ben a ragione, si è proposta laica di fronte alle concezioni spirituali, tuttavia quando penetriamo le aree più profonde della personalità, in un processo terapeutico lungo nel tempo, o connotato esistenzialmente, emergono istanze che riguardano l’essere e, pur se non siamo filosofi, siamo chiamati a dare risposte o a farne emergere. Il paziente oltre alla cura del sintomo vuol sapere che senso dare alla sua esistenza.

I fenomenologi e gli esistenzialisti pur essendosi differenziati nel mondo della speculazione filosofica per avere evitato la ricerca dell’assoluto e della verità, tuttavia non hanno escluso, come è avvenuto per un Husserl o per Heidegger, l’attenzione al trascendente e religioso, e in ogni caso hanno cercato spiegazioni per risolvere il dualismo tra l’essere e l’esserci. Non basta fermarsi al fenomeno che si manifesta, sia esso la “cosa” o l’uomo. Pur se condivido, come terapeuta, la posizione di chi cerca nell’ esistente, piuttosto che nella concettualità, questo non significa dimenticare le strutture, i contenuti, e quanto non appare direttamente all’osservazione dei sensi. Dall’osservazione si producono significati. Ogni fenomeno costituisce una complessità.

Chi sperimenta lo fa in maniera soggettiva, ma solo attribuendo significati può entrare in relazione con il resto del mondo. Li troviamo in ciò che appare ma si nascondono anche dietro quanto direttamente contattiamo. Pur se sembra un paradosso parlare di un “dietro” visto che consideriamo il fenomeno come fatto unitario, nel concreto è in questi termini che viviamo l’esperienza quotidiana e questa è la rappresentazione comune e condivisa della realtà. Di qui il sostegno concettuale che favorisce la attribuzione di significato. È connaturata nell’essere umano la ricerca di senso, strettamente collegata al vivere l’esperienza. Quello che sto proponendo è che una visione integrativa permette attenzione a più livelli. Certo, la psicoterapia ha la sua ragion d’essere nel ridurre gli stati di sofferenza e molti metodi funzionano: alcuni sono più specifici per certe forme di patologia e non per altre, taluni indirizzi si focalizzano sulla cura del sintomo e ci sono scuole più rivolte alla ristrutturazione della personalità. Ma nessuno può asserire di aver trovato la strada per risolvere il problema della sofferenza.

Lo sappiamo, è propria dell’essere umano, gli viene semplicemente dal suo esistere, dal fatto di essere al mondo e non ha senso chiedersi perché. C’è. Quindi curiamo sintomi, attiviamo potenziali, utilizzando esercizi psicologici apriamo la coscienza a stati emotivi, sensoriali, a processi di pensiero e a creatività insospettate, ma al fondo di ognuna di queste esperienze, per quanto nuove o arricchenti siano, restano le domande esistenziali importanti. “Chi sono?” “Che faccio a questo mondo?” “Qual è il mio destino?” Sono interrogativi che ci poniamo in solitudine e fanno tremare il cuore. Nessuno vuol finire nel nulla,1’angoscia è intollerabile, e cerchiamo risposte. Ci siamo riferiti ai filosofi e alle religioni e abbiamo per lungo tempo sottratto questi temi alla psicologia, dimenticando che gran parte del malessere parte proprio da queste domande. Di fatto abbiamo operato una scissione tra lo psichico contingente e la dimensione spirituale che proietta l’uomo in uno spazio con più ampi confini.

L’esistenzialismo fenomenologico di Heidegger concepisce la morte come liberazione nel nulla ed è proprio la morte che interrompe il continuo ritorno ai blocchi originari che si sperimenta dopo l’apertura alle nuove possibilità. Così concepita la morte appare come una liberazione attraverso l’annullamento dell’esistenza, visione quasi polare alla concezione fondata sull’adattamento creativo che caratterizza la psicoterapia della Gestalt la quale, al contrario, sembra proporre l’affermazione costante del possibile, proprio qui, in questo mondo. Oltre alle personali intuizioni di F. Perls e al suo incontro con le opere di Friedleander, il filosofo tedesco al quale si ispirò, il movimento gestaltico a cui dette vita ebbe diverse influenze e tra queste certamente furono determinanti i contatti con le tradizioni spirituali venute dall’Oriente. Perls ebbe un periodo particolarmente fecondo, per il suo sviluppo personale e per dar corpo alla propria concezione esperienziale della terapia, nel tempo che visse in California e ad Esalen, dove alla fine degli anni ‘60 si incontrarono maestri di diverse tradizioni: Sciamanesimo, Buddismo, la via del Tao, Castaneda.

La psicologia umanistica si era sviluppata partendo da valori basati su una profonda fiducia nel potenziale umano, sull’ideale dell’amore come fattore di cambiamento personale e sociale, e a volte su interpretazioni male integrate di fenomeni culturali che cercavano in insegnamenti acriticamente importati appoggio per soluzioni idealistiche e ribelli. In Gestalt si alimenta la filosofia della trasparenza e della consapevolezza insieme ad una concezione per la quale esperienza e significato convivono. E’ nel setting, grazie alle tecniche di identificazione, che emerge il senso, mentre il terapeuta facilita il contatto consapevole, evitando l’intervento interpretativo diretto e lasciando alla responsabilità del paziente la scoperta delle sue potenzialità. Da questo tipo di atteggiamento, che evita la proposta di verità interpretative di un terapeuta “che sa”, emerge l’uomo che direttamente sperimenta e assimilando le sue stesse esperienze si dà significato. Partendo da queste premesse voglio dare spazio ad alcune considerazioni sul “continuo” di consapevolezza, che considero la pratica più emblematica della terapia della Gestalt e allo stesso tempo una filosofia esistenziale. Nell’esercizio, che può essere sviluppato in molteplici maniere, sostanzialmente viene data attenzione focalizzata, momento per momento, al fluire di quanto si affaccia alla coscienza. Da un lato è un modo più sofisticato di esprimere libere associazioni, mantenendo insieme concentrazione e apertura al possibile, d’altro lato evoca le pratiche meditative che provengono dalla tradizione Vipassana, quindi dalle forme più antiche del buddismo. In questo tipo di meditazione viene associata alla attenzione concentrata, magari sul respiro, l’osservazione senza giudizio delle esperienze dei sensi e del pensiero, così come si manifestano.

Chi osserva propone a se stesso una implicita domanda, ingenua e non espressa: “Cos’è questo?” Non servono valutazioni nè aspettative di risposta. Diamo spazio al fenomeno così com’è e lo accogliamo nel silenzio interiore, favorito dalla concentrazione. Mi sembra che questa pratica rifletta una concezione dell’essere pienamente integrabile in una visione fenomenologica della terapia. Non cerchiamo niente aldilà, le cose sono come sono. Essere presenti dà il senso dell’esistere e il “Chi sono?” si manifesta in uno stato in cui la coscienza osserva la coscienza, uno stato indefinibile difficile da descrivere e tuttavia riconoscibile da chi lo sperimenta. Attraverso il “continuo di consapevolezza” si colgono direttamente momenti di salute mentale, ideale implicito della psicoterapia della Gestalt. Quando succede, non è necessaria alcuna valutazione psicopatologica. Non c’è nulla da curare.

Tuttavia quello che accade nella prassi abituale e che il “continuo”, il fluire della coscienza, incontra ostacoli che producono conseguenze a diversi livelli, cognitivi, emotivi, sensoriali, costituendo dei veri e propri sistemi difensivi. Teniamo ad interrompere il contatto con quanto ci appare rischioso, perché proibito in maniera effettiva o immaginaria, o semplicemente perché si tratta di un’esperienza sconosciuta che, in quanto tale, non sappiamo gestire. Sono quindi evitamenti connessi a divieti ambientali che impediscono di soddisfare necessità e desideri o di esprimere potenziali creativi. Per altri versi le interruzioni sono resistenze alla libertà e alla neutralità della coscienza che impediscono l’evolversi dell’uomo verso la comprensione della sua essenza. Secondo le tradizioni buddiste la sofferenza connota l’esistenza umana e l’attaccamento ai bisogni la perpetua. Ci aggrappiamo ad ogni cosa della vita e, sopraffatti dalla passione, perdiamo il senso dell’impermanenza.

Ogni necessità assume valore assoluto è il mancato conseguimento produce delusione e sconforto. Una delle possibili illusioni è che la felicità sia connessa alla soddisfazione dei bisogni, non importa di che tipo, ma quando si inizia un percorso terapeutico presto ci si rende conto che dopo le urgenze emergono sempre nuovi obiettivi, una catena incessante di altre mete da realizzare. Dopo anni di analisi finalmente ci sentiamo più riconosciuti, abbiamo attività più soddisfacenti, magari una relazione affettiva, più soldi, una famiglia… e ancora ci sentiamo infelici. Il ciclo non si interrompe mai. È una malattia dell’uomo, sia che si manifesti come compulsione alla soddisfazione o come passiva rinuncia alla stessa, che di fatto ne è la polarità equivalente. È il continuo ritorno indietro al quale si riferisce Heidegger. Ogni volta che raggiungiamo il “possibile”, la meta programmata, ricadiamo nello stesso problema di origine e si vanifica quanto realizzato. Certo, è totalmente naturale che conseguito il completamento di una Gestalt se ne apra una nuova, che a sua volta tenderà alla chiusura, ma la passione che mettiamo nel raggiungimento dell’obiettivo provoca sofferenza e, paradossalmente, per eccesso di energia e di desiderio, ne impedisce la realizzazione. D’altra parte l’uomo viene al mondo con queste caratteristiche che sono funzionali al bambino per la sua sopravvivenza, ma per crescere gli tocca trasformarle, e questo è complicato. Connesse alla passione si organizzano idee irrazionali e paralizzanti che girano fondamentalmente intorno a convenzioni del tipo: “Devo fare qualcosa di più per ottenere il risultato, devo sforzarmi ancora” oppure: “Non ho le capacità, sono io che non valgo, per questo non riesco” e in altri casi: “ Sono loro, gli altri, che non vogliono darmi quello che mi serve”. In realtà tutti sappiamo, quando usciamo dalle nostre condizioni, che non c’è così tanto da fare o da ricevere. La Gestalt lo insegna. Se cerco i principi o le principesse nei castelli o sui cavalli bianchi non li troverò. La verità è che già sono qui, proprio vicino a me e non altrove.

Tuttavia sul pensiero fenomenologico spesso prevale quello idealizzante, di quella parte di noi che insiste sempre di più nel volere “l’altro” che non è qui è che solo per questo ha più valore. Un atteggiamento di tal tipo a volte aiuta, spinge alla ricerca, al diverso e alimenta la creatività. Altre volte diventa ossessione improduttiva. Se provo a sentire amore per chi mi sta a fianco, proprio in questo momento, allora mi sento pieno e non ho bisogno di cercare altrove. Posso stare qui, io-tu, essenza con essenza. L’amore diventa fattore di crescita. Già Biswanger lo considerò via per la realizzazione e in questa direzione si mossero Perls, che ereditò e trasformò in esperienza l’Io-Tu di M. Buber, e Berne che considerò l’intimità, la capacità di relazione profonda, come fattore per il raggiungimento dell’autonomia.

Le vie dello sforzo e dell’ “altrove” che sostengono la spinta verso supposti cambiamenti, sono sostituite in Gestalt dalla via dell’accettazione. È paradossale, ma se mollo la presa, mi lascio andare e accetto anche di sentire il dolore, il dolore stesso sfuma e poi si estingue, come ogni altra esperienza. Vogliamo fuggire dalla sofferenza inseguiamo la felicità e con questi presupposti ogni nostro atto è condizionato dal conflitto. Al contrario, se manteniamo la concentrazione durante il continuo di consapevolezza, o ancora meglio nella meditazione, rimanendo in pieno contatto consapevole con l’esperienza, l’esperienza stessa svanisce e ne nasce una nuova. Tutto questo suggerisce altri significati.

Pur quando siamo umanamente e necessariamente coinvolti, la realtà che in quell’attimo viviamo è limitata nel tempo e non ha valori assoluti. Nella tradizione dell’Ati Yoga i fenomeni sono manifestazione di uno stato della mente che nella sua natura non è condizionato. Non è un a priori o una proiezione nel futuro, è il nostro stesso essere, qui e ora, nella sua assolutezza e nella sua contingenza. Nella tradizione dello Dzogchen i maestri insegnano che “dall’origine illuminati siamo” e questo vuol dire che non c’è niente da cercare fuori perché è già tutto nell’esistente. Il discorso, forse comprensibile, è molto difficile da mettere in pratica. Heidegger rimanda alla morte il momento della liberazione. Nella nullità ci si libera. Ma quale nullità? Nel Buddismo si parla di vuoto, un vuoto dal quale origina e nel quale termina ogni esperienza. È un vuoto conoscibile, di cui si ha consapevolezza, ben lontano dal vuoto di esistenza che viene vissuto negli stati di avvilimento o da quello che produce angoscia. L’angoscia esistenziale si genera da mancanza di speranza causata dalla minaccia della fine, del nulla, e dalla percezione della inutilità del proprio esistere. Sartre che profondamente colse il senso della disperazione umana, parlò di gratuità del reale, tanto gratuito da provocare nausea. Sembra che le cose abbiano valore finché l’uomo gliene attribuisce e che la vita in sé non abbia significato quando si perdono gli scopi.

La concezione esistenziale è pervasa di pessimismo. La sfiducia nell’esistenza di un ente esterno, di un eterno inesistente, anche quando intellettualmente concepita, toglie speranza e getta nell’angoscia. Il vuoto al quale fa riferimento Perls è un vuoto che produce esperienza, un punto neutrale nel quale cessa il conflitto, il condizionamento dal giudizio, ed emerge la creatività. È come dire che l’atto creativo, l’atto che fa nascere il nuovo e quindi mantiene la continuità dell’esistere, scaturisce dalla stasi, dal silenzio delle voci interne. È lo stesso vuoto che cerchiamo nell’esperienza meditativa e proprio attraverso il vuoto è conoscibile la condizione pura della mente. Non ci sono verità assolute o enti da cercare altrove. A prescindere dal messaggio spirituale, la concezione appena delineata costituisce una grande sfida per il paziente passivo che non attiva le sue possibilità perché si aspetta che altri facciano per lui.

Quando comprende che suo è il potenziale e lo sperimenta, incomincia ad assumersi la responsabilità, sceglie, e diventa arbitro della propria vita. Riconoscendosi smette di cercare appoggi esterni anche quando non è necessario. Questo non vuol dire che diventerà totalmente autosufficiente, anzi apprendere a scontrarsi ogni giorno con i suoi limiti e dovrà valutare quando insistere e quando fermarsi, quando fare da sé e quando chiedere sostegno, perché altri possono là dove lui da solo non ce la fa o semplicemente perché a volte collaborando si cresce meglio. Una spiritualità che produce siffatti risultati non crea conflitto e può coesistere con un eventuale credo religioso.

Quanto detto può essere riportato ad un principio di responsabilità che pervade il pensiero fenomenologico ed in effetti è già presente fin dalle origini, anche se in altre forme, nella stessa psicoanalisi. E. Fromm sostiene che Freud ebbe un alto senso religioso e che nelle intenzioni più profonde le sue furono critiche tese a smantellare concezioni che toglievano dignità all’uomo. Non accettò la schiavitù da un prevaricante padre divino che tutto governa e sostiene. Nella terapia della gestalt, con Claudio Naranjo, la responsabilità, la consapevolezza e la presenza nel qui e ora divennero fattori essenziali per il processo di cambiamento e la tecnica terapeutica si sviluppò in queste direzioni. Per stimolare la responsabilità non diamo facilmente risposte ma preferiamo provocarle, così che emergano direttamente dal paziente. Del processo consapevole abbiamo detto, e lo stare nel qui e ora, oltre alle implicazioni filosofiche sui tempi della realtà, facilità un approccio concreto all’esistenza. Perls concepì l’idea di creare il vuoto, sottraendo il sostegno esterno perché, creativamente, si producesse l’autosostegno. A partire da qui si assumono responsabilità e si operano scelte. Non sempre questa via è trattabile, ci sono pazienti che, al contrario, del sostegno hanno bisogno, ma non così tanto da soffocare nelle risorse, immobilizzando il malato nella passività dei luoghi o del farmaco. Principi analoghi sono presenti nella teoria del Copione di Eric Berne, sviluppata da lui stesso e dai suoi successori. Il concetto di libertà degli esistenzialisti, latitudine fenomenologica ereditata dal maestro psicoanalista Federn, costituiscono il filo portante della sua concezione evolutiva nella costruzione del “piano di vita”, attraverso il quale vengono organizzate le regole interne sulle quali si fonda la storia di una persona.

Profondamente realistica, l’Analisi Transazionale concepisce una teoria che da spazio al determinismo e alle possibilità insieme. Il bambino nasce in un ambiente che lo condiziona, a volte pesantemente, e che il bambino stesso tende ad incorporare. Le influenze che eredita vengono da lontano. L’analisi degli stati dell’Io parentali può articolarsi fino ad individuare identificazioni con caratteristiche appartenute a nonni e a bisnonni ma anche a generazioni più lontane. E poi c’è la cultura del posto nel quale il bambino vive, l’educazione scolastica che riceve, il carattere dei genitori che ha e i modelli che questi gli trasmettono. Sono tutte esperienze intorno alle quali organizza la propria vita. Ma ciò che davvero conta è che negli schemi che va costruendo è presente la sua volontà e questa lo porta ad operare non scelte qualsiasi, ma specifiche. Anche quando sono limitanti e nascono da un principio di sopravvivenza che spinge all’adattamento, sempre contengono un elemento creativo che qualifica come sua e personale la via che intraprende. Il bambino decide e lo fa con intenzione di conseguire i suoi risultati con il minor danno possibile.

Il Copione somiglia ad un dramma teatrale. Ha un inizio, una parte centrale nella quale la trama si sviluppa ed un finale coerente con la storia complessiva. Il lettore attento può prevederlo. Non bisogna però svalutare le circostanze della vita, le casualità, e queste possono cambiare il corso del Copione e dargli una nuova direzione, positiva o drammatica. Alla luce di quanto detto mi sembra di poter concludere che non godiamo di una libertà totale e che siamo solo relativamente arbitri del nostro destino. Abbiamo pochissime garanzie sulla durata della vita e, al di là delle illusioni, non siamo esenti da imprevisti, da disastri naturali né da sofferenze nel corpo. Non possiamo evitare che l’uomo si ammali. È possibile però intervenire su quanto si oppone alla nostra libertà ampliando i confini della coscienza verso una maggiore accettazione dei limiti e verso una maggiore comprensione dei valori che qualificano l’essere umano. Ecco perché quando chiesero a Chagdud Tulku un consiglio per la pratica spirituale, il vecchio Lama rispose: “Non perdere tempo”. In termini psicologici ed esistenziali il Copione diventa un abito: rigido, ripetitivo e stereotipato.

La storia di una persona che emerge dal racconto fatto in terapia, così come le regole interne che le hanno dato vita e ancora la sostengono, seguono alcune linee guida, solo alcune, non tante. Le tracce costitutive del Copione sono credenze basate su nuclei cognitivi e razionali e generalizzanti, e su stati emotivi che avendo perduto l’originaria forza motivazionale si falsificano o si riempiono di intensità non necessaria. E infine su regole interne, autogenerate, che sono il prodotto di attribuzioni di significati distorti a causa di esperienze esse stesse influenzate dalla inautenticità di emozioni e pensieri. Sto riferendomi ovviamente al Copione limitante e ricordo che nella complessità dell’esistenza c’è tanta parte di salute mentale. Quel piano di vita che con il tempo ci ha fornito la maschera nella quale ci identifichiamo, costituisce una difesa per le nostre fragilità e per questo ci aiuta, ma contiene anche un’illusione. Ci identifichiamo in quella maschera, cioè nel nostro adattamento, e non la lasciamo per il timore di smettere di esistere. Questa paura costituisce una delle maggiori cause di resistenza alla terapia, Ma ancor prima che chiude alle possibilità che offre la vita. Ci preserviamo attraverso una falsificazione e così facendo fuggiamo dalla autenticità. Ma è proprio l’autenticità che per Heidegger ci apre al mondo del possibile, e l’esperienza dimostra che la nostra esistenza risulta più piena quando lasciamo la maschera a favore di una maggiore trasparenza. Nella trasparenza si attiva la reciproca accettazione e da qui nascono relazioni più significative. Negli ambienti psicologici paradossalmente si parla poco di amore, c’è quasi una sorta di pudore nel farlo. Eppure la psicopatologia è basata su teorie che partono dall’osservazione delle carenze d’amore delle quali soffrì il bambino nella sua storia evolutiva. Allora è proprio la capacità amorosa che va ripristinata e la si può praticare anche semplicemente, a partire dalle tecniche che facilitano la relazione e l’incontro con l’altro come la Gestalt ha insegnato.

Non ho da proporre un concetto di “guarigione finale”. Forse si guarisce quando si realizza ciò che serve in un momento dato. Viviamo in un continuo fluire di esperienza e non immagino sponde a cui approdare e fermarsi per sempre. Forse l’unica costante è il nostro essere, la nostra presenza. E allora a volte sperimentiamo il nuovo, a volte analizziamo, a volte ci rilassiamo nel silenzio e meditiamo.

C’è spazio per ognuna di queste cose, senza conflitto, in un sistema coerente.

 

 

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